Ogni sera i “i popi e le popi” dovevano riempire un foglio dove segnalavano ogni loro movimento della giornata e rivelavano il contenuto delle lettere ricevute. La fondatrice si faceva chiamare “mamma” e i suoi insegnamenti erano ritenuti ricevuti direttamente da Dio tramite delle visioni. Nelle comuni dei focolarini ogni azione veniva controllata e si potevano leggere soltanto i libri di Chiara Lubich (1920/2008).
Violenza privata e manipolazione mentale, accanto all’abuso di correzioni, ha caratterizzato la vasta organizzazione della “monaca” trentina. Alcuni e alcune usciti dall’inferno focolarino hanno raccontato e denunciato con dovizia di particolari. Un recente articolo del quotidiano Domani, riprende quelle denunce e altre (5.7.20022).
Siamo decisamente nel campo delle psico-sette. Con il termine setta intendo una sorta di mondo a parte, tendenzialmente votato alla propria purezza interiore e indifferente alla società globale, i cui membri ritengono di dovere svolgere una funzione intorno ad alcuni chiamati a funzioni particolari. La setta si caratterizza per un linguaggio comune comprensibile quasi esclusivamente ai membri e un atteggiamento collettivo di dipendenza acritica dai leader.
Ma le psico-sette non sono soltanto appannaggio delle religioni, anche il vasto campo delle varianti psicoanalitiche ne è stato toccato nei decenni successivi alla nascita della psicoanalisi.
In un contesto come quello dei focolarini, organizzazione approvata dalla Chiesa nel 1962 con il nome di Opera di Maria, si accede per “vocazione”, ovvero per la “chiamata di Dio” tale giudicata dai direttori spirituali. Nelle comunità psicoanalitiche le motivazioni sono le più disparate: disagi psichici, disturbi veri e propri di personalità, fasi difficili della propria vita. L’individuo si affida allo psicoanalista per un cammino che può risultare alla fine di cambiamento positivo e duraturo. Ma, nella sua condizione di insicurezza il paziente si offre anche a eventuali disastrose manipolazioni quando si creano comunità autoreferenziali, appunto delle sette.
Accade allora che i membri devono assumere comportamenti determinati per sentirsi amati dagli analisti “capi”, ricevendone in cambio un aumento dell’autostima.
Chi, in modo implicito o esplicito si mostra critico, viene spinto ai margini e indicato come meritevole di biasimo.
Tutto ciò è accaduto in una comunità di indirizzo junghiano (collegato al “pensiero” di Silvia Montefoschi) condotta da una coppia sposata di psicoanalisti. Negli incontri collettivi per i pazienti i due sollecitavano interventi elaborati scritti secondo un linguaggio, in un certo senso, tra il mistico e l’esoterico. Alcuni, particolarmente bravi, venivano fatti oggetto di grandi e pubbliche lodi, mentre quelli che non si esponevano venivano confinati nell’insignificanza e se qualcuno interveniva con uno stile personale riceveva come risposta un triste silenzio di disapprovazione prima di tutto da parte degli psicoanalisti.
Con atteggiamento tra il profetico e il sapienziale, la coppia poteva anche indicare quale precisa strada nella vita dovesse intraprendere un paziente, facendo anche significative, pubbliche pressioni nella comunità.
Implicitamente induceva l’ossequio, il riconoscimento, l’affetto anche tramite regali in alcune ricorrenze (come in occasione dei loro compleanni) indicava la portata del regalo per una coppia che si sposava, ecc.
Il, o la malcapitata, giudicata dai due negativamente, attirava l’ostracismo da parte di tutti, come accadeva -e accade- nei conventi, dove il potere dei priori e delle priore veniva esercitato talvolta anche con sadismo, sempre con la complicità almeno di una componente rilevante della comunità.
Dinamiche perverse di cui i membri sembravano non essere consapevoli, tale era la dipendenza. C’era chi si precipitava a raccontare ai “capi” la confidenza ricevuta del malessere, o chiedeva la parola in occasione degli incontri per raccontare la confidenza ricevuta in privato o per additare il comportamento non accettabile.
Il sistema arcaico conventuale delle punizioni e vessazioni veniva esercitato anche mediante i “processi” alla presenza del “tribunale” gestito dai due e dai loro collaboratori ufficiali con relativa, eventuale, espulsione temporanea dagli incontri del gruppo e dai seminari. La riammissione richiedeva poi un rito ufficiale. Non in nome della vocazione, dunque, e di Dio, ma del sapere salvifico psicoanalitico.