Magdi Allam in un articolo su Il Giornale ha formalmente dichiarato: Lascio la Chiesa, che legittima Islam e protegge immigrati.
Queste motivazioni suscitano qualche interrogativo in chi ricorda l’enfasi e l’esposizione mediatica con cui fu divulgata la notizia del battesimo dell’islamico vicedirettore del Corriere della Sera celebrato da Benedetto XVI, Maurizio Lupi padrino, il 22 marzo 2008 in San Pietro, proprio come oggi alla vigilia di Pasqua. Era quello stesso papa che due anni prima aveva pregato in una moschea, mentre Francesco si è limitato a riconoscere che i musulmani adorano Dio unico, vivente e misericordioso.
Forse quindi l’abiura nasce piuttosto dalle altre scelte di Francesco che non dal filoislamismo condiviso con Benedetto dalle cui mani aveva ricevuto il battesimo. Il suo ripudio è contro la chiesa povera annunciata dal primo e non da quella autoreferenziale e trionfalistica governata dal secondo, in sintonia con altri che lo condividono in silenzio.
Si può muovere da queste dichiarazioni per andare oltre i chiacchiericci dell’ultima settimana sul nuovo papa e cercare di dare una valutazione non superficiale del passaggio fra Benedetto – il monaco che accompagnò la Chiesa nel Medio Evo – e Francesco – il frate che ne segnò l’uscita – per cogliere il valore innovativo dei suoi gesti e delle sue dichiarazioni.
È ben noto quanto la Chiesa cattolica sia maestra nella “politica dei segni”. La sua liturgia affinatasi nel tempo non ha nulla da invidiare ai più sofisticati cerimoniali politici ispirati, più o meno consapevolmente alla teoria di Rousseau sulla funzione dei segni nell’esercizio del potere.
Francesco ha fin dall’inizio sconvolto le regole non indossando la mozzetta rossa sulla veste bianca, calzando scarpe nere, esibendo la croce di ferro, ripudiando l’anello d’oro, non tenendo sulle spalle la stola oltre il tempo necessario per impartire la benedizione, che inoltre ha impartito solo dopo aver chiesto ai fedeli, appena salutati come fratelli e sorelle, di pregare per lui, vescovo della loro città prima ancora che papa universale. Sono segni che hanno ben altro valore della pur spettacolare “passeggiata” fra la gente, della promessa visita alle carceri, degli abbracci ai bambini e delle carezze ai disabili che anche i suoi predecessori avevano distribuito.
Sono indubbiamente segni di discontinuità pari se non più significativi della scelta del nome che restituiscono prestigio e autorevolezza alla persona del papa. Non è possibile, però, anticipare in quale direzione saranno spesi in presenza della grave crisi che sta attraversando la Chiesa. Evidenziata dalla rinuncia di Benedetto XVI essa è alla base della scelta che ha indotto un conclave, a maggioranza conservatore, ad eleggere un conservatore, tale è infatti papa Francesco, ma “dalla parte dei poveri”.
La crisi è generale riguarda il patrimonio dottrinale, coinvolge l’istituzione nei diversi livelli, centrale periferico, si manifesta nelle comunità con l’esodo silenzioso dei fedeli. L’entusiasmo con cui è stata accolta l’elezione di Francesco testimonia del grande desiderio di uscirne.
Sulle reali possibilità di farlo gravano le incertezze sulle scelte del nuovo papa, ma soprattutto sul tipo di governo che intende istaurare. Le sue esperienze di provinciale dei gesuiti argentini e di arcivescovo di Buenos Aires non sono state ispirate da una volontà di aprire la Chiesa alle spinte della base a promuoverne la dimensione comunitaria. La costruzione della collegialità sarà, quindi, il suo banco di prova. Solo infatti restituendo autonomia alle Conferenze episcopali nazionali e raccogliendone gli orientamenti in un Sinodo rinnovato e autorevole potrà dar voce alle istanze di rinnovamento che animano le Chiese locali. Sarà, in primo luogo, la via per rispondere alla urgente necessità di un radicale processo che liberi la Curia dalla corruzione e dalle contese che i recenti scandali hanno evidenziato.
Solo infatti un ridimensionamento delle competenze e del potere delle sue Congregazioni, potrà garantire in futuro trasparenza e correttezza nelle sue procedure e nei suoi interventi.
Certo le conseguenze di un probabile nuovo corso potrebbero non essere inizialmente positive per l’Italia in presenza di una Conferenza episcopale, chiusa alle esperienze di rinnovamento, che pure animano le comunità, aperta, invece, alle sollecitazioni, interne ed esterne, ad intervenire nella vita pubblica come un soggetto politico fra gli altri.
Al tempo stesso però proprio quelle esperienze potrebbero trarre legittimazione e forza da un papa che rompe con la continuità. Soprattutto la scelta per una chiesa povera, oltre che per i poveri, legittimerà chi rifiuta e denuncia coloro che la vogliono “ricca”… anche di potere. La lotta contro il regime concordatario e il finanziamento pubblico che ne consegue potrà essere proclamata dai pulpiti e non ci saranno più alibi per chi fino a oggi l’ha considerata “ecclesialmente” scorretta.
Anche i politici sedicenti laici non potranno più astenersi da tale lotta nel timore di perdere consensi perché accusati di anticlericalismo. Diventeranno, anzi, benemeriti perché aiuteranno la chiesa a diventare come il papa vuole che essa sia!!!
Pur se paradossale questo scenario, che l’avvento di papa Francesco può consentire di immaginare, apre una stagione da non lasciare passare senza un rilancio generalizzato dell’impegno per la laicità delle istituzioni nel nostro Paese.