Ratzinger viene ritratto dalla stampa italiana come il papa del dialogo, della comprensione, animato da una ricerca teologica il cui filo conduttore è appunto l’armonia tra ragione e fede.
Ma al contrario, andando a rileggere molti dei suoi scritti e delle sue dichiarazioni pubbliche emerge un quadro totalmente diverso.
Per il Papa Emerito Benedetto XV, fede e ragione diventano compatibili solamente se quest’ultima abdica completamente dalle sue prerogative per sottomettersi in maniera totale e incondizionata alla fede.
Nella nota conferenza tenuta a Ratisbona egli scrive:
“Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere”.
Mi sembra chiaro il suo concetto e non c’è altro d’aggiungere, ma tuttavia questo è il male minore della lunga vita pastorale di Ratzinger, ad esempio, egli non ha accompagnato, nel corso della sua pastorale di fine intellettuale, il vangelo di Matteo:
”Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare”.
Rammento il vangelo di Matteo, per ricordare come aveva gestito lo scandalo pedofilia, dichiarando già nel maggio 2001 quand’era prefetto della congregazione per la dottrina della fede, la ex santa inquisizione per intenderci, in una lettera riservata rivolta a tutti i vescovi, menzionava il compimento di peccati molto gravi, tra cui le molestie sessuali, perpetrate da clericali nei confronti di minorenni che:
” situazioni di questo tipo sono coperte dal segreto pontificio “.
La Corte distrettuale del Texas ritenne opportuno indagare Joseph Ratzinger per l’imputazione di «ostruzione alla giustizia» a causa delle disposizioni di riservatezza contenute nella lettera.
Nel 2005, John Beal, professore di diritto canonico all’università cattolica, ha rilasciato una deposizione sotto giuramento nella quale ha ammesso a Daniel Shea, difensore di due presunte vittime, che la lettera ha esteso la giurisdizione ed il controllo della Chiesa sui crimini sessuali.
La sua missiva non lascia spazio a dubbi richiama esplicitamente l’istruzione crimen sollicitationis, il crimen istruiva i vescovi su come trattare i sacerdoti che adescavano i fanciulli, per essere brevi, obbliga al silenzio nella pratica obbliga il trasferimento di parrocchia in parrocchia i preti pedofili senza denunciarli alle autorità civili.
Nel frattempo, citato in giudizio per intralcio alla giustizia in un processo in Texas su tre casi di abusi su minori commessi da un seminarista colombiano, si avvalse dell’immunità diplomatica in quanto divenne papa ed evitò cosi di andare a deporre.
Sarà pur vero che Ratzinger ha sostenuto il dialogo tendendo la mano, ma con l’intento di prendersi il braccio dell’interlocutore.
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