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Presunzione di infallibilità

Nel dare la notizia della morte di Hans Küng, uno dei più grandi teologi del 900, il giornale della Conferenza Episcopale Italiana ricordava che il teologo svizzero era “notoriamente il contestatore del dogma sull’infallibilità del Papa. Una posizione resa nota presso il grande pubblico nel 1970 quando uscì il saggio Infallibile? Una domanda, testo provocatorio sin dal titolo e il cui contenuto gli valse [prima] un richiamo formale della Congregazione per la dottrina della fede e nel 1979 il ritiro del titolo di «teologo cattolico»” (Avvenire, 6 aprile 2021).

E questa data non è casuale. Nell’ottobre del 1978, infatti, viene eletto papa, dalla maggioranza conservatrice del collegio cardinalizio, Karol Wojtyła, che intende procedere a un’opera di normalizzazione del mondo teologico, che aveva goduto di una certa libertà negli anni successivi al concilio Vaticano II (1962-1965). Ecco perché uno dei primi atti di Giovanni Paolo II riguarda proprio Hans Küng: bisogna fare capire a tutti che con l’infallibilità non si scherza. E infatti negli anni seguenti non si conterà il numero degli studiosi cattolici raggiunti dal divieto di pubblicare i loro scritti o addirittura privati della cattedra.

Ma non tutti capiscono. Anzi, nel 1989, ben 163 teologi di area tedesca firmano un testo, noto come la ‘Dichiarazione di Colonia’, che denuncia la politica romana come autoritaria, ricevendo la solidarietà di 157 teologi di lingua francese e persino quella di 63 italiani. Probabilmente in Vaticano non si aspettavano una mossa del genere, avvertita come una vera e propria rivolta: ormai si gioca una battaglia decisiva, tanto che se non si riuscisse a piegare i ribelli resterebbe compromesso il ruolo del magistero. Perciò la risposta sarà durissima: l’anno seguente Giovanni Paolo II ordina infatti la pubblicazione della Istruzione Donum Veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo elaborata dalla Congregazione per la dottrina della fede presieduta dal 1981 dal cardinale Ratzinger. Si tratta di un testo che vale la pena esaminare per rendersi conto di quali esorbitanti competenze l’autorità ecclesiastica presuma di godere.

 

Un testo un po’ presuntuoso…

 

Premesso che la verità che libera l’uomo dall’ignoranza e dal peccato “è un dono di Gesù Cristo” (n 1), il documento prosegue affermando senza alcuna esitazione che il magistero è “un’istituzione voluta positivamente da Cristo come elemento costitutivo della Chiesa” (n 14), che esso è unico interprete autentico della rivelazione “scritta o trasmessa” (n 13) e che la sua competenza “si estende anche a ciò che riguarda la legge naturale” (n 16).

Si precisa, poi, che il papa e i vescovi in comunione con lui godono di una speciale “assistenza divina” (n 17) anche quando, “senza giungere ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo definitivo», nell’esercizio del loro magistero ordinario propongono un insegnamento, che conduce ad una migliore comprensione della Rivelazione in materia di fede e di costumi, o direttive morali derivanti da questo insegnamento” (ivi). Anzi, persino “le decisioni magisteriali in materia di disciplina, anche se non sono garantite dal carisma dell’infallibilità, non sono sprovviste dell’assistenza divina, e richiedono l’adesione dei fedeli” (ivi). E poiché il papa “adempie la sua missione universale con l’aiuto degli organismi della Curia Romana ed in particolare della Congregazione per la Dottrina della Fede […] Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro” (n 18).

È chiaro che, una volta spacciate queste tesi per verità indiscutibili, agli studiosi resta ben poca libertà di manovra. Il teologo deve prestare “un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza” (n 23) agli insegnamenti anche non definitivi del magistero; se avanza ipotesi non conformi alle posizioni ufficiali, “anche se la dottrina della fede non è in causa, […] rinuncerà ad una loro espressione pubblica intempestiva” (n 27) ed “eviterà di ricorrere ai «mass-media»” (n 30) per divulgare le sue idee; men che mai, poi, potrà creare dei collegamenti con altri teologi, assumendo “quegli atteggiamenti di opposizione sistematica, che giungono perfino a costituirsi in gruppi organizzati” (n 32), dando luogo a “quell’atteggiamento pubblico di opposizione al magistero della Chiesa, chiamato anche «dissenso»”(ivi), che, nella sua forma più radicale, osa addirittura proporsi il “cambiamento della Chiesa” (n 33).

Niente di più pericoloso, dunque, della libera ricerca teologica che implica evidentemente la possibilità di discostarsi dalle posizioni ufficiali. Non c’è spazio per un insegnamento fondato non sull’autorità ma sulla competenza e sugli argomenti razionali: bisogna rinunciare a ogni critica per non dare l’impressione che esista “una specie di «magistero parallelo» dei teologi” (n 34), che si opponga all’unico magistero autentico. E il teologo non può certo richiamarsi al principio della libertà di coscienza per dissentire dal magistero: se lo facesse, dimostrerebbe di essere già fuori dallo spirito del cattolicesimo. Infatti, “opporre al magistero della Chiesa un magistero supremo della coscienza è ammettere il principio del libero esame, incompatibile con l’economia della Rivelazione e della sua trasmissione nella Chiesa, così come con una concezione corretta della teologia e della funzione del teologo” (n 38).

E se una pronuncia del magistero fosse palesemente errata? Nessun problema! Basta distinguere le pronunce relative alle verità rivelate, che richiedono un’adesione di fede, dalle “questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. […] In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei documenti magisteriali non fossero privi di carenze. I Pastori non hanno sempre colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione. Ma sarebbe contrario alla verità se, a partire da alcuni determinati casi, si concludesse che il Magistero della Chiesa possa ingannarsi abitualmente nei suoi giudizi prudenziali, o non goda dell’assistenza divina nell’esercizio integrale della sua missione. [… Il teologo infatti] sa che alcuni giudizi del Magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione contenevano in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano sicure. Soltanto il tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a seguito di studi approfonditi, di giungere ad un vero progresso dottrinale” (n 24).

 

… che forse sarebbe meglio abrogare

 

Che alla fine del XX secolo la Congregazione per la dottrina della fede – indifferente alle acquisizioni della cultura laica e agli argomenti proposti dagli stessi studiosi cattolici che negano il fondamento biblico delle pretese magisteriali – possa approvare, con sprezzo del ridicolo, un simile documento, lascia a dir poco stupefatti. E non si salva certo l’infallibilità affermando, quando certi errori diventano assolutamente evidenti, che ‘alcuni giudizi del Magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati’ e che in ogni caso non riguardavano verità rivelate ma ‘questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti’.

Ma davvero? Peccato che, nel condannare Galileo Galilei (1633), gli Inquisitori della Santa Sede Apostolica usassero il linguaggio delle definizioni solenni: “Diciamo, pronunziamo sentenziamo e dichiariamo che […] ti sei reso […] veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura”. Mi chiedo: cosa avrebbero detto i suddetti Inquisitori se qualcuno avesse affermato che il loro intervento era solo ‘di ordine prudenziale’ e che forse non era privo ‘di carenze’?

Non oso immaginare cosa avrebbe risposto Bonifacio VIII, che per quanto ne sappiamo era particolarmente facile all’ira, a chi avesse derubricato a tesi ‘di ordine prudenziale’ e non priva ‘di carenze’ quella contenuta nella sua bolla Unam sanctam del novembre 1302: “noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario alla salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Romano Pontefice”!

E oggi si deve considerare vincolante la professione di fede del Concilio di Firenze (1442) – “La chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che nessuno di quelli che sono fuori della chiesa cattolica, non solo i pagani, ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt 25,41), se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti” – o si può supporre che allora non ci fossero le condizioni per cogliere ‘subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione’?

Per concludere, se fosse consentito dare all’autorità ecclesiastica consigli non richiesti, io suggerirei di rinunciare a certe ingannevoli scappatoie e di rivalutare l’opinione di Giovanni XXII – noto per altro a suo tempo per avere risanato le finanze della sede apostolica, tanto da essere chiamato ‘papa banchiere’ – che, come ricordava Hans Küng nel suo volume Cristianesimo, non era affatto convinto che i papi non possano sbagliare e che le loro sentenze siano perciò irriformabili. Questo pontefice, sette secoli fa, definiva addirittura “accecati dal padre della menzogna” coloro che, sostenevano che “ciò che i Pontefici Romani hanno una volta definito in materia di fede e di costumi per mezzo della chiave della scienza [cioè in forza della loro autorità dottrinale] rimane immutabile, al punto che i successori non possono metterlo in dubbio né affermare il contrario” (Quia quorundam, 1324). Non sarebbe il caso di tornare a Giovanni XXII e dichiarare solennemente che quella dell’infallibilità è proprio un’idea suggerita ‘dal padre della menzogna’?

Giovanni Fioravanti

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