Conosco persone (anche amici che stimo) che, con l’avanzare degli anni, tornano alla pratica religiosa della loro infanzia che, naturalmente, per chi è nato in Italia, è quasi sempre quella cattolica.
Non è così per me: il trascorrere del tempo, le esperienze di vita, la riflessione filosofica mi allontanano sempre più da ogni tentazione religiosa, in particolare se per religione s’intende quella delle chiese organizzate con i loro dogmi, i lori riti, le loro gerarchie. Le sento lontanissime da me, non perché credo di possedere una Verità con la maiuscola, quella di cui le chiese si vantano, ma proprio perché sento di non poter accettare nessuna verità di questo tipo e credo, piuttosto, nelle verità con la minuscola, quelle che sono il frutto dell’esperienza e del mutamento storico, quelle che non si immobilizzano nella fissità dei dogmi, quelle che ci permettono davvero di dialogare con gli altri, perché siamo pronti ad ammettere la parzialità di ogni punto di vista, compreso il nostro. Anche la chiesa cattolica gerarchica dice di essere disponibile al dialogo con le altre fedi e con il mondo dei non credenti, ma in realtà non fa che ribadire la sua Verità e i suoi Valori universali, oggettivi e non negoziabili. Ma un mondo che possa diventare più pacifico e tollerante non ha bisogno dell’Assoluto (anche questo scritto con la maiuscola), ma del relativo e del fallibile, di qualcosa che, per la sua intrinseca limitatezza, ci apra davvero alla comprensione degli altri e alla collaborazione con loro.
Eppure gli uomini cercano l’Assoluto, qualcuno obietterà; cercano la Verità definitiva, quella che secondo Ratzinger si deve e ci deve possedere se vogliamo realizzare la pace e la giustizia e raggiungere la salvezza. Solo che, analizzando la storia di due millenni di cristianesimo, questa pace e questa giustizia raramente o quasi mai si trovano e, in quanto alla salvezza, non è chiaro come la si debba intendere, se come ricerca di una beatitudine personale ed eterna, o come condivisione del dolore comune, anche di coloro che non ci sono fratelli nella fede che noi professiamo. E come potremmo, nel primo caso, essere farisaicamente soddisfatti della nostra salvezza contemplando dall’alto il dolore eterno dei cosiddetti peccatori? In realtà, nonostante le promesse del messaggio cristiano e di altre religioni, non c’è via d’uscita dalla condizione umana, che è necessariamente una condizione in cui sono presenti il dolore e la morte ed assieme ad essi la tendenza a quello che Kant chiamava il male radicale, ossia la tendenza a violare la legge morale, a non rispettare il nostro prossimo, anche con l’intolleranza religiosa che le chiese cristiane hanno praticato a lungo e che oggi sembrano avere abbandonato, soprattutto per merito della nascita dello Stato laico che le ha costrette a rispettare il pluralismo religioso e ad accettare la legge comune. Ma se esse non pretendono più di perseguitare, attraverso il braccio secolare dello Stato, coloro che offrono una differente interpretazione del messaggio cristiano o addirittura lo rifiutano, quasi tutte non hanno ancora accettato il pluralismo morale e continuano a pretendere che la legge civile resti ancorata ai loro tabù e alle loro condanne. Va detto subito che non si tratta solo della chiesa cattolica, in Italia particolarmente arrogante e invadente, ma anche di gruppi evangelici fondamentalisti, il cui fanatismo fa perfino rimpiangere il dogmatismo cattolico, o della chiesa ortodossa da sempre intimamente legata alla tradizione del dispotismo russo.
Gli unici cristiani davvero tolleranti e disposti al dialogo, che mi è capitato di incontrare nel corso di una vita ormai lunga, sono stati i valdesi, da sempre oggetto di persecuzioni e discriminazioni, e certi gruppi cattolici di base, del tutto ignorati dai grandi media e a cui Italialaica offre volentieri il suo spazio, perché non pensano che Cristo sia venuto al mondo per confermare i farisei nelle loro certezze e nel loro ipocrita perbenismo di privilegiati. Personalmente non credo che Gesù di Nazareth fosse il figlio di Dio incarnatosi per la nostra salvezza e che egli sia risorto dalla morte dopo tre giorni a conferma di questa sua origine divina. Né penso che risorgeremo anche noi con lui e ci libereremo, dopo la morte, delle fragilità che ci fanno essere uomini per accedere a una condizione di perfezione sovrumana. Non lo credo e neppure vorrei che fosse così, poiché non intendo uscire da ciò che mi rende uomo (il dolore, la morte, il non possedere verità definitive), ma, in questi giorni in cui i credenti rievocano e celebrano la sua nascita, accolgo da non credente il suo appello agli uomini di buona volontà perché collaborino a rendere la condizione umana non certamente paradisiaca (non lo è mai stata e mai lo sarà), ma un po’ più tollerabile e un po’ meno ingiusta. Un laico non credente non è necessariamente nemico della fede religiosa; per esserlo dovrebbe avere la presunzione di possedere, a sua volta, quella Verità di cui si vanta continuamente il vescovo di Roma, anche quando ostenta umiltà. Ma non c’è scienza, non c’è saggezza mondana che possa condurre a questa Verità; per il laico non credente ci sono solo le parole con cui Giacomo Leopardi conclude il suo canto della Ginestra: E piegherai/ sotto il fascio mortal non renitente/ il tuo capo innocente:/ ma non piegato insino allora indarno/ codardamente supplicando innanzi/ al futuro oppressor; ma non eretto/ con forsennato orgoglio inver le stelle,/né sul deserto, dove/ e la sede e i natali/ non per voler ma per fortuna avesti;/ ma più saggia, ma tanto/ meno inferma dell’uom, quanto le frali/ tue stirpi non credesti/ o dal fato o da te fatte immortali.
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