Agli inizi del secondo dopo guerra mondiale, la grandezza del cinema neo- realistico italiano, era riconosciuta ed esaltata come unica ed eccezionale in tutto il mondo occidentale.
Essa costituiva una nota positiva in un contesto altrimenti e altamente drammatico.
Il Paese, infatti, da due millenni cattolico, apostolico, romano era al minimo storico della sua credibilità politica internazionale: aveva dato a un ex socialista, Benito Mussolini, un consenso popolare di dimensioni colossali, reso evidente dalle riprese cinematografiche della folla plaudente a piazza Venezia; sulla scia dei vanagloriosi sogni imperiali del Duce, si era inventato, come nella Spagna di Francisco Franco, un sistema di governo clerico-fascista; si era spaccato la notte del 25 luglio del 1943, diventando nella sua maggior parte antifascista nel giro di una notte con la semplice destinazione allo sciacquone del proprio water closet della tessera del P.N.F.; aveva combattuto al fianco degli “alleati anglo americani” con lo stesso spirito succube e servile, dimostrato poco tempo prima nei confronti dei tedeschi; si era dilaniato in un guerra civile (che aveva chiamato eufemisticamente “resistenza”) in cui si erano fronteggiati e massacrati senza risparmio di colpi soprattutto fascisti e comunisti, “fratelli-coltelli” perché figli dello stesso padre, l’idealismo tedesco post-hegeliano e della stessa madre, la Patria ausonica; aveva accettato dagli “Alleati Anglo-americani” una resa incondizionata e la “carità pelosa” di un piano, detto Marshall, senza neppure comprenderne gli effetti negativi che, con quell’elemosina, vi sarebbero stati per la propria autonomia e indipendenza politica.
Eppure, in un tale tragico contesto, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Pietro Germi, Luchino Visconti, Giuseppe De Santis, Alberto Lattuada, Renato Castellani, Luigi Zampa, Alessandro Blasetti, autori di orientamento politico, tutt’altro che omogeneo, con imprevedibile e ammirevole “coralità” si erano mossi su una linea di pensiero che poteva apparire (ma non lo era) concordata e fortemente tesa a risvegliare l’italico orgoglio per una rinascita nazionale poderosa e coesa.
Quel cinema, in un popolo che aveva abbandonato il raziocinio e la logica con il crollo del “meraviglioso antico” greco romano, aveva fatto leva, naturalmente, sull’emozione e sull’umanità; sentimenti, non del tutto annullati dagli eventi.
Il ruolo importante e decisivo, svolto da quelle immagini animate e sonore, ci fa capire che, purtroppo, la passionalità, per quanto intensa, non basta ad arrestare il declino di un popolo. Il cinema italiano contemporaneo non dà molte speranze.
Quando si parla dell’attuale cinema sudcoreano come il migliore del mondo, non manca chi fa raffronti con il periodo d’oro, tutto italiano, del neorealismo.
A me sembra che l’accostamento sia del tutto improprio.
Il pensiero comune alla base degli autori orientali è profondamente razionale e per nulla emotivo anche se tocca profondamente i sentimenti degli spettatori.
A differenza di ciò che ritengono taluni nostri critici, imbevuti, non per loro colpa ma a causa dell’ambiente in cui sono stati istruiti ed educati, di irrazionale cultura catto-comunista, gli autori sudcoreani non intendono minimamente promuovere una rivoluzione di tipo bolscevico: ne hanno abbastanza degli esempi della Cina e del Nord del loro stesso Paese (le fughe di loro compatrioti da quel regime tirannico di sono quotidiane).
Il loro discorso va molto più in profondità, anche se non può essere oggettivamente compreso in Occidente.
Da tutti i film e serial diffusi sulle piattaforme digitali (e fuori di esse) si ricava che l’intuizione sottostante a quelle opere è la necessità di abbattere il modello di società patriarcale e ripristinare almeno alcune regole della matrilinearità probabilmente alle origini della specie umana (come lo è di quella animale).
E ciò non solo per evitare gli effetti della violenza e dell’aggressività fisica maschile ma anche per elidere la fonte dell’avidità proprietaria che è nella “mitizzazione” del liquido seminale (quante delusioni esso provochi nelle aspettative paterne, nessuno dice) e nell’idea della famiglia come nucleo circoscritto e chiuso (se non ottusamente confliggente) rispetto al resto dell’umanità.
Nei film e nei serial sudcoreani il mondo femminile, quando non si lascia irretire da logiche maschilistiche (per stupida imitazione), dimostra di avere conservato, a dispetto del vincente e prepotente patriarcato, una sensibilità, una passionalità e una ricchezza emotiva veramente ammirevoli.
Gli autori sudcoreani sembrano esserne consapevoli: il loro ateismo razionale li mette al riparo delle false giaculatorie sia delle religioni mediorientali che hanno sedotto e soggiogato l’Occidente sia delle astratte filosofie idealistiche che con il fascismo e il comunismo hanno portato il terrore sull’intero globo. Sempre con l’intento dichiarato di volerlo salvare.
Ovviamente l’interpretazione delle loro opere in Occidente continuerà a essere fuorviata a causa dei paraocchi religiosi (pochi critici coglieranno che in alcuni serial, come All mine, il cattolicesimo, lungi da proclamati propositi di realizzare l’uguaglianza universale, è visto soprattutto come fonte di arricchimento ecclesiale attraverso il mezzo subdolo della beneficenza favorita, nel loro spudorato interesse, dai ricchi) e dell’ideologismo acritico dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”; nonché, è persino superfluo aggiungerlo, della cecità assoluta dei fanatici dell’estrema destra.
Da Europeo che si è posto con progressivi approfondimenti fuori della “cultura” dominante nel mondo in cui vive, guarderò con interesse sempre crescente alle opere che quella cinematografia saprà darci, senza cadere nel tranello dei nostri “impegnati” critici, sempre volti a cogliere segnali di rivoluzioni egualitarie, ispirate a utopie religiose o filosofiche che sinora hanno solo contribuito a insanguinare il pianeta.