All’etichetta di dittatore, che il nostro Presidente del Consiglio ha attribuito al presidente turco Erdogan, questi ha risposto di essere stato, nella sua carica, eletto; piuttosto che -come Draghi- nominato. Il punto però è di vedere quanto a Draghi, chi l’ha nominato: e siccome è stato, con la modalità di un voto di fiducia, un organo elettivo, ecco che una legittimazione elettorale non manca. Meno diretta, d’accordo; ma anche più controllata rispetto a sconfinamenti, giacché la fiducia può poi essere tolta. Siamo di fronte insomma alla classica contrapposizione, fra governi presidenziali e governi parlamentari. Con i primi viene meglio perseguita, la separazione fra i poteri; ma con i secondi viene meglio garantito, l’equilibrio fra i poteri.
Contrariamente a quanto ritiene Erdogan, comunque, a contare è non soltanto l’origine del potere, ma anche il suo esercizio (tanto più che tale esercizio potrebbe cercare di, l’origine del potere, alterarla per le elezioni successive; è il caso, di un esercizio alla Trump). Ebbene con Erdogan il suddetto assetto di poteri, per cui con i governi parlamentari il parlamento -magari col voto determinante di piccoli partiti- può destituire il governo, lo troviamo addirittura rovesciato: il governo può destituire il parlamento, nel senso di privare della carica ed arrestare chi appartiene a piccoli partiti cioè quello che, in Turchia, fa riferimento ad una minoranza etnica.
Nel panorama, di prepotenze, rispetto ai diritti civili, ai settori deboli, ecc., che in Turchia ho già rilevato su “Italialaica” qualche mese fa (e che in effetti si è aggravato, negli anni successivi al fallito colpo di Stato), poteva forse mancare la prepotenza nel campo religioso? Come si sa, in tale paese una norma indubbiamente illiberale che vieta l’uso della religione per scopi politici era stata, in passato, applicata a partiti di ispirazione islamica. Rispetto a questi, il partito di Erdogan sorge con un profilo più moderato: restando quindi al riparo da tale norma. D’altronde, per qualche tempo non ha messo in discussione l’assetto di poteri e di diritti, nel cui contesto era giunto al governo.
Ma poi, il rapporto fra islam e principi delle democrazie liberali è andato incontro a notevoli difficoltà (che si danno, in varia misura, anche con altre religioni: così ma con una vicenda tutta interna ad una religione, papa Wojtyla non ha forse avviato il processo di santificazione per Pio IX, cioè l’autore del Sillabo?). Sono difficoltà che in Turchia e limitandoci a questioni di “genere” mettono in evidenza proprio un uso della religione, per scopi politici, allorché Erdogan viene ad affermare alcuni anni fa, che “la nostra religione ha definito una posizione per le donne: la maternità. Non si può spiegare ciò alle femministe perché non accettano il concetto di maternità”. Parole davvero impressionanti, per la rozza perentorietà e per l’implicita negazione di un’uguaglianza, fra i sessi. È sulla loro scia che si può valutare il recente ritiro della Turchia, da quella Convenzione di Istanbul contro la violenza alle donne cui aveva dato vita il Consiglio d’Europa.
Così come, quasi contemporaneamente, ecco che quanto all’Unione Europea -da non confondere con l’appena menzionato, Consiglio- si viene nell’incontro di Ankara, a collocare in posizione di secondo rango la Presidente della Commissione. Sarebbe stata opportuna una reazione, energica: a cominciare da chi, per l’Unione Europea, si trovava a fianco di Von der Leyen. Il punto è che difendere valori quale quello, offeso in tale circostanza, ha dei costi: ben messi in luce negli scorsi mesi dal titolo “Stato di diritto i soldi contano più dei valori”, sotto il quale in un articolo su “La stampa” Vladimiro Zagrebelsky criticava l’Unione Europea per i suoi atteggiamenti remissivi verso Ungheria e Polonia. Io aggiungerei, a tali critiche: è soltanto in campo monetario che si è capaci di dire “whatever it takes”?