Mai forse si è parlato tanto di diritti… ma di quali diritti si tratta?
È necessario fare chiarezza, porre fine alla retorica e alla banalizzazione che finisce per significare qualsiasi cosa e il suo contrario, ogni valore, di conseguenza, perde consistenza perché «quando un concetto significa tutto, non significa più niente. La perdita di qualsiasi ancoraggio semantico significa la morte di un concetto» (Vladimiro Giacché).
Basta aprire un giornale, connettersi a un social, accendere radio o TV… è “diritto” tutto e il contrario di tutto… si deve intervenire, quasi sempre “contro”, spesso con toni offensivi e violenti… l’opposto di diritto nel suo reale significato.
Ci si appella alla giustizia, alla libertà, all’autonomia, all’uguaglianza… parole grosse, importanti, ma rischiano di rimanere astratte: ciò che vale è la loro applicazione, i termini, le modalità, le leggi per realizzarle nei diversi contesti.
I problemi nascono quando dalle dichiarazioni si passa alle norme per concretizzarle, per uscire dalla “carta” e farsi storia reale; questi valori devono essere incarnati altrimenti rimangono un principio più di discussione filosofica (nulla di male, anzi spesso interessante e stimolante) che di realtà quotidiana.
Diritti, giustizia, libertà, autonomia, uguaglianza possono essere considerati valori assoluti, ma non potranno mai avere un contenuto assoluto per ogni tempo e luogo, nella loro attuazione hanno significati differenti in storie e geografie diverse.
Diritti, libertà, giustizia non sono concetti ideali, principi inalienabili, si raggiungono in un complesso percorso storico, sociale, culturale, etico. Libertà, giustizia, autonomia, uguaglianza… per principio sono valori condivisi… ma, cosa significa essere liberi, giusti, autonomi, uguali? come assicurare nel proprio tempo, personale e comune, nella “terra” che calpestiamo, il diritto alla libertà, alla giustizia, all’autonomia, all’uguaglianza?
È indispensabile un quadro critico al cui interno collocare il dibattito attuale avendo come punto di riferimento il rapporto – problematico, in costante evoluzione – tra l’io e il noi, l’individuo e la comunità di cui fa parte, dalla più piccola all’umanità intera, in un processo dialettico alla ricerca di un equilibrio, irraggiungibile nella sua completezza, dove si intrecciano numerosi fattori tra due poli che appaiono contrapposti e complementari.
In teoria nessuno dei due elementi dovrebbe prevalere… facile a dirsi, difficilissimo da realizzare: l’equilibrio tra l’intervento di uno Stato come “garanzia” di giustizia, libertà, equità, uguaglianza, rispetto della diversità e lo spazio individuale dove si svolge l’esistenza personale è un equilibrio possibile soltanto in società mature nelle quale i valori essenziali sono acquisiti dall’intera collettività… un traguardo ancora lontano.
La teoria – le teorie – fa fatica a divenire prassi positiva se non viene contestualizzata: difficile, ma non impossibile se, quando è necessario, si cambiano il punto di vista e gli obiettivi.
Manfred Max-Neef, cileno, brillante docente di economia nella prestigiosa Università della California, Berkeley, riferimento a livello mondiale per le sue teorie economiche, sicuro delle sue analisi e soluzioni, fu inviato con una delegazione di “esperti” nella sierra peruviana per studiare la situazione e trarne analisi e suggerimenti. Un giorno di pioggia, per caso, si imbatte in un uomo piccolo, magrissimo, senza lavoro, moglie, cinque figli, una nonna: «Ci guardammo l’un l’altro… mi resi conto che non potevo dirgli niente di adatto, di opportuno, di coerente: nel momento in cui guardai negli occhi la povertà rimasi muto»[1]. Quello sguardo segnò la sua “conversione” ad una nuova lettura economica che definì “economía descalza”, a piedi nudi, sporcandosi nel fango della realtà perché «l’economia è per le persone, non le persone per l’economia».
Solo un esempio per comprendere come tra teoria e prassi c’è il mare immenso del reale, del contesto specifico, del cammino storico.
Ripetiamo, di quali diritti si sta parlando?
Difficile rispondere ad una domanda di tale vastità… possiamo soltanto fare alcuni esempi per aprire, e lasciare aperto, un dibattito a tutto campo.
Il diritto alla sicurezza prende l’inquietante aspetto di pistole e armi per “difendersi” da chi cerca di derubarci o fa un gesto oltraggioso o semplicemente è di un altro colore… si parla poi di “eccesso di difesa” quando è ormai troppo tardi!
Ma al diritto alla sicurezza di chi muore o perde tutto per incendi, più o meno dolosi, ci si pensa quando uno Stato che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»[2] ha 716 aerei da guerra (e non sembra che l’Italia abbia nemici da cui difendersi!!!) e 15 (dico quindici!) canadair per spegnere incendi così devastanti e numerosi e ricorrenti?
Si parla di aumentare il costo di beni essenziali con vari pretesti, persino ricorrendo alla necessità di reperire fondi per il ministero della transizione ecologica… (ottimo questo interesse per l’ambiente se davvero verranno prese decisioni coerenti con i fini), ma perché nessuno parla delle enormi spese militari, sostenute in parte dai fondi destinati alla cooperazione internazionale[3]?
Nel 2020, per la voce “spese militari”, l’Italia ha speso 27 miliardi con una previsione per il 2021 di 30: 82 milioni al giorno di media.
Negli ultimi dieci anni vari governi hanno tagliato fondi alla sanità pubblica per 37 miliardi, ma hanno speso in media oltre 20 miliardi all’anno in armi.
Queste sono le priorità per il “diritto alla sicurezza”, e saranno inevitabili dolorose conseguenze: cosa importa se il numero delle famiglie a rischio di povertà sale in maniera esponenziale, se bambini, adolescenti, giovani hanno una scuola peggiore, se il loro futuro è sempre più a rischio, se ne viene un danno alle cure e alla salute?
Questi diritti calpestati sono conseguenze accettabili, piccoli sacrifici per poter dormire tranquilli… ma chi? chi sarà costretto ad abbandonare la sua casa e vivere di espedienti, chi non riesce “a mettere insieme il pranzo con la cena”, chi soffre l’emarginazione di non avere un lavoro, chi vive sulla propria pelle il crollo delle pari opportunità? pazienza, è la vita: tutti diritti di serie B, tutti diritti stabiliti da un dio minore!
E il diritto alla verità? troppo spesso ignorata e calpestata, un “inconveniente” da lasciare il più possibile lontano tra fakes news e post-verità.
Allora ecco l’assurdità dei “falsi positivi”[4], delle prove costruite ad arte, di una “verità relativa” (una contraddizione di termini) flessibile, condizionata al luogo e al momento, difesa con la violenza e la discriminazione, mentre la verità, fin dalla sua ricerca, unisce perché è una – seppur frutto di tanti momenti diversi –, l’inganno della menzogna divide all’infinito, come infinite sono le falsità.
Si assiste ad una moltiplicazione e rivendicazione di diritti individuali contro diritti comuni, riguardanti l’altro, la società e intere categorie, quasi fossero due ambiti in conflitto e non complementari; la libertà del singolo invade lo spazio della libertà collettiva con la richiesta di garanzie per i propri diritti “minacciati” e di cui si rivendica l’assoluto rispetto.
Si dimentica che la società può funzionare soltanto se si instaura un sistema egualitario di diritti e di doveri, il rispetto dei doveri serve a far sì che tutte le persone possano avere diritti inviolabili, riconosciuti, garantiti.
Secondo Simon Weil, i miei desideri possono essere degni di rispetto, ma non sono per questo miei diritti e i diritti autentici degli altri sono miei doveri.
Si esige una libertà individuale senza condizionamenti né mediazioni con la libertà collettiva… si riempiono social e piazze con denunce di “regime”, un “regime” che, caso mai, risale agli anni in cui, in nome di un ipotetico contenimento della spesa pubblica, si dette avvio alla privatizzazione selvaggia (poche voci allora si alzarono!) di settori vitali per una democrazia e per una società egualitaria, di diritto: sanità, scuola, infrastrutture, servizi, ricerca…
Il richiamo alla “collettività” è minimo, per non dire nullo, il perno su cui girano le rivendicazioni rimane “individuo” e “autodeterminazione” personale; di fatto, recriminazioni e non dibattiti aperti sulle limitazioni alla libertà individuale, senza dare spazio ad una riflessione sulla giustizia sociale in ogni ambito della vita della gente.
Il rischio che diritti divengano privilegi è sempre dietro l’angolo e non solo nella percezione comune delle persone ma in una serie di circostanze che creano dubbi su valutazioni e decisioni più o meno istituzionali.
Non è un dibattuto inutile e, soprattutto, non può essere ignorato, non si tratta di semplice polemica politica, è un problema complesso che vede quasi mettere in competizione le varie categorie di diritti, soprattutto “civili” e “sociali”.
L’essere umano non è un’isola completa in se stessa, una monade indipendente da ogni contatto, è un “individuo sociale” in relazione con molti altri, presente in ambiti sempre più vasti, di conseguenza diritti e libertà personali vengono coniugati all’interno di un intreccio di rapporti in una specifica società e cultura.
Non possono essere ignorate, senza che l’uno prevalga sull’altro, l’interdipendenza e la coesistenza di ambiti individuali e collettivi.
Il concetto stesso di diritto presuppone la possibilità di agire, di esercitarlo e la democrazia è una garanzia per i diritti comuni e personali.
Il concetto di democrazia si basa, tra l’altro, sulla rinuncia di una parte delle priorità individuali per un ordine collettivo attraverso l’intervento dello Stato, un “contratto sociale” che, all’interno di uno Stato di diritto, assicura una società ugualitaria e includente nel rispetto dei diritti essenziali di tutti.
Nel corso degli anni, a livello politico si è verificata una progressiva metamorfosi di categorie, a lungo ago della bilancia dell’ordine socio-politico-culturale, che ha sconvolto punti di riferimento e valori: “sinistra/centro/destra” non rappresentano più i poli distinti che permettevano, pur in una dialettica a volte dura, una discussione politica spesso costruttiva e, in ogni modo, chiara nelle differenti visioni e analisi. Se si escludono le frange estreme, su tanti argomenti vitali si sono smarrite molte delle specifiche diversità avvicinandosi a denominatori non troppo dissimili per cui nella società civile si sono persi, in bene e in male, punti di riferimento fondamentali del dibattito politico-culturale oltre che etico.
Se ne possono portare ad esempio le politiche del fenomeno migratorio. Indubbiamente il mondo della sinistra presenta una maggiore apertura al problema, taglia i toni più accesi, afferma la necessità di soluzioni diverse; soprattutto la base dimostra una sensibilità lontanissima dai fanatici raduni razzisti della destra o delle dichiarazioni ufficiali di partiti che temono di perdere qualche voto… ma non dimentichiamo, per esempio, che è ancora valido l’Accordo del 2017, al tempo del governo Gentiloni, sul “controllo remoto” con l’esternalizzazione delle frontiere per contenere i flussi migratori; nel luglio 2021 il parlamento ha confermato il sostegno del governo italiano alla guardia costiera libica… di cui tutti ormai sanno bene il comportamento, la corruzione, la disumanità, la violenza[5].
Questa situazione confusa può essere una delle cause della disaffezione per la politica, della diffusione dell’individualismo e della difesa dei diritti personali; di conseguenza non ci si rende conto della deriva economico-sociale al cui interno vengono fatti accettare fattori di disuguaglianza, emarginazione, ingiustizia purché sia assicurato lo sviluppo economico e tecnico.
Ne sono un esempio i contratti di lavoro sempre meno collettivi, che sembrano offrire soluzioni personalizzate, quindi una salvaguardia dei propri diritti, fanno sentire padroni di se stessi… ma la divisione rende più vulnerabili[6], solo una ricerca di soluzioni condivise può offrire risposte migliori, più sicurezza di lavoro, difesa dei diritti anche personali, condizioni di dignità e libertà ben più alti del “piatto di lenticchie” per cui sei disposto a rinunciare a percorsi comuni e di maggiori risultati per tutti.
La perdita di “ideologia” ha reso sempre meno stretti i rapporti legati all’ambiente di lavoro e di studio, più lontane, quasi estranee, le istituzioni sino a poco fa determinanti: Stato, partito, sindacato… presentati e vissuti quasi come fattori che limitano la libertà, i diritti individuali, la realizzazione personale, oltre i quali è necessario andare per non cadere in conflitti che possono ostacolare il proprio interesse.
Il processo democratico viene vissuto da molti come una pastoia al percorso individuale, si apre così la strada alla perdita del senso della propria presenza e si rischia di cadere in una sorta di schizofrenia socio-politica nel vortice delle leggi del mercato.
Più una persona è sradicata da rapporti comunitari, più è precaria (non solo nel campo del lavoro), direi flessibile, senza punti di riferimento, come nomade in cerca di un luogo che risponda agli standard del momento, senza memoria della storia e della propria storia, oggetto di consumo e di produzione.
Il diritto collettivo fa rima con “bisogni”, il diritto individuale spesso più con “desideri-ambizioni-privilegi” visti come misura del proprio vivere in una collettività che deve adattarsi ad essi. Si riscontra così una progressiva perdita di senso di appartenenza alla realtà sociale e, di conseguenza, di partecipazione positiva nella costruzione di una società in cui diritti libertà giustizia non siano parole idealistiche e idealizzate ma realtà vissute giorno per giorno, preoccupandosi fin nei dettagli della loro applicazione concreta.
«Può esistere un’unica modalità di diritti umani, un’espressione valida universalmente tanto che sia legittimo imporla ad ogni persona e a tutti i popoli? Possono esistere forme ugualmente legittime, seppur radicalmente differenti, che assicurino l’esercizio dei diritti essenziali?»[7].
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani rimarrà sempre uno spartiacque essenziale, molto cammino è stato fatto dal 1948, sono stati ampliati i diritti a campi non identificati allora, ma molto resta da fare, anzi sembra quasi che si sia imboccata una strada in senso contrario alla loro soddisfazione e realizzazione per tanti popoli, storie, culture.
È pressoché unanime il loro riconoscimento come valore inalienabile e patrimonio collettivo, ma si discute da tempo sul significato di “universale” visto che la loro formulazione nasce all’insegna della centralità di quella parte di mondo definita “Occidente”, di conseguenza non possono risultare accettabili in toto ovunque, non tutti vi si possono riconoscere in pieno, come se fossero principi derivati da un reale dibattito che abbia coinvolto tutti i popoli, da un consenso mondiale espresso in forma maggioritaria.
Boaventura de Sousa Santos afferma: «Oggi l’egemonia globale dei diritti umani come discorso della dignità umana convive con una realtà sconvolgente: la grande maggioranza della popolazione mondiale non rappresenta il soggetto dei diritti umani, ma piuttosto l’oggetto dei discorsi sui diritti umani»[8].
La Dichiarazione Universale per i diritti umani è ritenuta un indiscusso comune denominatore, ma nel tempo le rivendicazioni si son fatte più forti e circostanziate.
Non si può dimenticare il peso del fenomeno coloniale, prima, e neocoloniale poi, sulla società di tantissimi paesi con l’obiettivo di una omologazione culturale per meglio governare (sfruttare le risorse) nel tentativo di cancellare la possibilità di percorsi autonomi.
Nel dibattito in corso, da una parte ci si chiede se sia possibile un testo socio-politico-giuridico valido in tutto il mondo, per ogni cultura e storia, dall’altra se non esista il rischio che nella sua formulazione possa prevalere chi ha più potere, lasciando fuori letture teorie prassi di un alto numero di popoli e paesi con differenti concezioni culturali, etiche, sociali, politiche.
Non è una discussione puramente accademica all’interno del mondo intellettuale, ma si diffonde sempre più e ipotesi opposte trovano risonanza in ambienti diversi e lontani.
È possibile costruire un principio guida per un sistema etico-morale valido globalmente che stabilisce beni e diritti di cui tutti debbono godere, degli obblighi da osservare, degli obiettivi da perseguire, dei principi che coinvolgono ogni persona e vincolano la comunità internazionale e gli Stati?
Ci si può basare su un principio democratico in cui vale il criterio di maggioranza, premesso che ogni democrazia è tale se tiene in considerazione anche i diritti delle minoranze?
I diritti umani come sono formulati oggi rappresentano una concezione della giustizia per dare una risposta ai problemi connessi con la convivenza sociale, ma il loro ambito di validità può abbracciare l’intera umanità?
Nonostante i tentativi di una globalizzazione che coinvolga tutto e tutti, non apparteniamo ad un solo sistema-mondo, vita concreta, situazioni storico-geografiche, contesti sociali, situazioni ambientali, sistemi politici segnano la specificità di un popolo.
Nel corso della storia le diverse società hanno maturato principi e risposte, si sono organizzate secondo le loro necessità, hanno sviluppato differenti concezioni culturali, differenti visioni del mondo e del bene comune, diversità che, di fatto, si sentono messe in pericolo da un tipo di globalizzazione che vuol tradursi nell’imposizione di un unico complesso di “valori”.
La presa di coscienza di diritti connessi a libertà e autodeterminazione ha reso molti popoli consapevoli che principi ritenuti universali sono estranei alla loro cultura e cosmovisione.
«Aspettarsi che lo Stato di diritto occidentale funzioni ovunque vuol dire dimenticare la storia» (Mauro Bussani), tentare di imporlo – nel migliore dei casi “convincere” ad adottarlo – è pura illusione.
«Quando pretendiamo di usare lo Stato di diritto non per costruire orizzonti da condividere ma come merce da esportare, come impianto chiavi-in-mano, semplicemente assumiamo un atteggiamento immemore e ingrato nei confronti della nostra stessa storia. Tutto il complesso strumentario noto come Stato di diritto che noi vorremmo adottato ovunque ci è stato infatti messo in mano dopo lunghi e faticosi percorsi»[9].
Lo “scontro di civiltà” di Samuel Huntington è, come ampiamente dimostrato, un assurdo ma il dibattito sulle differenze si è via via rafforzato.
La presa di coscienza dello sfruttamento ed esclusione ha portato molti popoli al riconoscimento di diritti collettivi e alla lotta per ottenerli: identità culturale, autodeterminazione, uguaglianza, difesa del proprio territorio…
Il movimento indigeno, sempre più organizzato e cosciente della sua diversità, acquista forza e presenza sulla scena socio-politica del proprio paese; così le rivendicazioni di molti popoli per avere un ruolo da protagonisti in campo internazionale, da cui sono stati da sempre esclusi; le conseguenze stesse dei flussi migratori con culture e tradizioni diverse…
Si sono dimostrate determinanti teorie che presentano una lettura peculiare ed originale dei diritti umani, la diffusione di più o meno recenti tesi filosofiche, la ripresa di fondamentalismi religiosi, di concezioni religiose che intervengono nel tentativo di imporre all’intera società la propria visione dei diritti umani (alla luce dei diritti di un qualche dio), così come posizioni socio-culturali che radicalizzano, per motivi politici di stampo populista, la difesa della propria “identità”.
Tutto ciò sembra andare in una direzione che mette in discussione la possibilità di un riconoscimento di diritti universali.
C’è un lungo percorso per giungere ad una soluzione condivisa perché, accanto a diritti che nessuno può mettere in discussione, che abbracciano l’essenza del vivere personale e sociale è necessario trovare iter di leggi, ordinamenti, forme di giustizia aperti a queste rivendicazioni. Non si tratta di accettare ogni “originalità” come dogma indiscutibile per un malinteso concetto di tolleranza, ma di onestà intellettuale per uscire da schemi e visioni scavalcate dalla storia.
Certo, non si può accettare la mutilazione genitale… e la semina indiscriminata di mine antiuomo? Non si può accettare la fatwa… e falsificare prove per intervenire in Iraq? Non si può accettare la discriminazione della donna in gran parte del mondo arabo… e la mancanza di misure legali efficaci, di prese di posizioni chiare in ambito politico contro il femminicidio nel “nostro” mondo? Fa paura uno Stato Islamico fondamentalista… e imporre governi e sistemi politici contro il voto popolare se non piacciono ai poteri mondiali? “Liberiamo” il popolo afgano da chi vuol spostare indietro le lancette della storia… e la libertà della Palestina? Perché per i primi si invoca il rispetto dei più elementari diritti umani e nel secondo caso ci si straccia le vesti accusando di negare la shoah?
Si allarga la forbice tra Nord e Sud (e non esiste più una collocazione geografica precisa: ci sono nord in zone geografiche del sud, e sud in spazi propri del nord), la frattura fra i paesi del centro del potere politico-economico e la periferia si approfondisce all’ombra delle più diverse crisi ed emergenze.
La coscienza culturale, storica, etica del passato viene sempre più attaccata da una globalizzazione in veste economica ma se, da una parte, ciò rende difficile conservare una capacità critica diffusa, dall’altra mette allo scoperto una visione transnazionale che penalizza paesi e popoli e, per quanto si cerchi di reprimerle, si allargano forme di contestazione e rivolta contro i tentativi di smussare, distruggere le differenze specifiche che danno forza e coesione alla coscienza di etnie, popoli, paesi interi.
Rileggere la storia alla luce dell’evoluzione socio-culturale del presente, permette di riscoprire denominatori comuni ma anche le diverse letture perché questa è la ricchezza offerta dalla diversità, la differenziazione è la via per avanzare verso sistemi di maggiore uguaglianza in un progressivo processo di giustizia sociale.
Si afferma che oggi c’è uguaglianza di diritti e disuguaglianza di opportunità, cioè la possibilità di realizzarli.
L’Alto Commissariato dell’ONU per i Diritti Umani stabilisce la necessità di riconoscere l’esistenza di minoranze per rispettarne la diversità: l’uguaglianza dinanzi alla legge non garantisce l’uguaglianza reale, storica.
Senza differenziazione, rimane indebolito lo Stato di diritto, non in grado di garantire l’esercizio dei diritti per tutti, il riconoscimento della diversità garantisce un concetto unico di cittadinanza e frena l’esistenza di cittadini di serie A, B, C…
I diritti differenziati riducono la disuguaglianza perché rispondono alle necessità specifiche di comunità discriminate nel rispetto della loro diversità sociale, etica, culturale, politica, spirituale: la diversità non è l’antitesi dell’uguaglianza ma il suo compimento.
Ciò non impedisce di indicare un processo di coscientizzazione per le tradizioni che minano la dignità della persona umana. Si possono superare retaggi culturali con percorsi condivisi di reale liberazione civile, socio-politica, culturale, religiosa per proteggere i diritti essenziali.
Retaggi culturali ci sono ovunque e sarebbe opportuno anche per noi confrontarsi con altre culture guardate troppo spesso dall’alto in basso. Per esempio il concetto di ubuntu[10] cambierebbe il volto delle nostre società.
Non è rispetto dei diritti differenziati accettare il fanatismo dei più diversi “talebani” presenti in ogni angolo del mondo, nelle realtà più vicine a noi, a causa, spesso ma non solo, di derive più o meno populiste e sovraniste, in altri contesti conseguenza anche di interventi che non hanno voluto confrontarsi con i settori aperti della società.
L’hanno detto in lungo e in largo, primo fra tutti Gino Strada – non certo ben visto da tutti coloro che oggi ne tessono le lodi – non si esporta la democrazia, e tanto meno la pace, ma si può aiutare a coscientizzare un popolo dei propri diritti in un percorso culturale sui passi della sua storia tradizione cultura purificandole dai sedimenti storici accumulatisi a vantaggio del potere di pochi che hanno creato situazioni di esclusione, sfruttamento, manipolazione delle coscienze anche attraverso letture distorte di testi religiosi… una coscientizzazione che non può passare per le armi e gli eserciti, ma per la conoscenza culturale e il rispetto reciproco di ogni popolo.
Ma un popolo che sa i propri diritti, che si incontra e si confronta, che parla e lascia liberi donne e uomini di dare il proprio insostituibile contributo è il peggior incubo per chi cerca le scorciatoie di un potere economico, religioso, politico assoluto.
«I diritti, in quanto anche rapporti socio-politici, richiedono un’azione collettiva.
La giustizia nell’ottica dei diritti umani può farsi concreta solo con istituzioni pienamente impegnate contro l’ingiustizia, le quali devono avere un codice morale che regoli i rapporti partendo dall’uguaglianza di diritti e doveri, un’uguaglianza che rispetti condizioni e capacità delle collettività e dei singoli.
Quando si tratta di giustizia non basta la buona volontà, occorre anche una obbligatorietà imposta dalle stesse istituzioni, secondo i diritti fondamentali, ma pure tenendo conto delle particolari condizioni storiche, culturali, sociali.
Le leggi non possono dipendere dal potere, ma devono essere espressione delle esigenze della comunità umana nella sua complessità.
La legge è sempre un’applicazione riduttiva della giustizia, tanto più se non tiene conto del valore complessivo che la giustizia contiene, delle esigenze reali, dell’evoluzione e peculiarità della storia dei tempi e dei popoli»[12].
Anacarsi (VI secolo a.C.), ospite di Solone, lo mise in guardia circa l’inutilità di stendere leggi per una società giusta e ugualitaria, perché è impossibile «trattenere le ingiustizie e le violenze dei cittadini tramite gli scritti che non differiscono in nulla dalle ragnatele; come le ragnatele, essi avrebbero trattenuto, fra chi vi incappava, i deboli e gli umili, mentre i potenti e i ricchi le avrebbero spezzate»[13]. Plutarco sottolinea che, nonostante l’impegno di Solone, i fatti dimostrarono che Anacarsi aveva ragione.
Trasimaco di Calcedonia (IV secolo a.C.) affermava: «La legge è ciò che conviene al più forte».
Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso nel 1980 per far tacere la sua voce in difesa dei poveri e per la giustizia, ripeteva spesso l’espressione di un contadino: «La legge è come la vipera: morde soltanto chi cammina a piedi scalzi».
Humberto Ak’bal, poeta indigeno guatemalteco, così descrive l’ingiustizia vissuta da chi è “diverso” nel suo stesso paese: «La giustizia non parla in lingua di indios,/la giustizia non scende sui poveri,/la giustizia non usa caites[14],/la giustizia non cammina a piedi nudi per i sentieri di terra».
«Guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» si legge nel vangelo (Lc. 11,46).
Spesso si rivendicano i diritti umani più in casa d’altri che in casa propria, non si può certo dire che il cosiddetto Occidente rispetti tutto ciò che vuol “esportare”, imposto persino con guerre umanitarie preventive!
Sarebbe infinito l’elenco dei diritti non rispettati e ignorati, ai quali si chiede obbedienza fuori dai confini – ed anche all’interno da quegli strati di popolazione meno uguali degli altri –. I diritti sono spesso alla mercé delle leggi di mercato: per pochi privilegiati sono inalienabili, per altri, la maggioranza, saranno soddisfatti solo in parte.
Non possiamo permetterci di giudicare popoli con cultura, storia, società diverse, tra l’altro senza porsi il problema di quanto l’Occidente sia colpevole di aver interrotto un percorso storico, di aver imposto istituzioni, governi, leggi, comportamenti, di aver creato profonde divisioni tra etnie, religioni, gruppi diversi…
Si usano argomenti subdoli, si ricorre a falsità e ricatti mascherati dall’inevitabilità di certe scelte per far scivolare il maggior numero di persone verso l’apatia, l’indifferenza, l’evasione… e chi dice la verità viene messo a tacere, come Julian Assange… così il cammino dei diritti e della giustizia finisce per tracciare un percorso tortuoso con pericolose svolte di ritorno ai peggiori periodi del passato.
Dopo oltre settant’anni, l’“essere universali” si dimostra un punto d’arrivo non ancora raggiunto e, forse, non raggiungibile.
Creano diversità numerosi fattori: dalla povertà alle opportunità, dalla possibilità e qualità dell’istruzione all’accesso all’assistenza sanitaria, da condizioni dignitose di lavoro a sistemi di sfruttamento, da uguaglianza dinanzi alla legge a sentenze ingiuste e faziose…
In un mondo che si definisce globale, si rivendicano diritti attraverso nuovi criteri di giustizia perché per costruire società più ugualitarie è necessario un ordine giuridico che tenga conto delle diversità esistenti, cioè, anche se ciò può apparire paradossale, un ordine giuridico dis-uguale, non unitario, perché, come diceva don Milani, «non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali».
La discussione sui diritti umani deve essere intesa come una teoria della giustizia, come proposta di organizzazione sociale e politica nel rispetto del cammino storico-culturale di ogni popolo.
Le parole di Trasimaco continuano ad essere valide anche oggi: la legge, il diritto, le norme che fissano la vita non sono assoluti né universali, molto meno naturali o di origine divina, né neutrali, rispondono a un progetto egemonico, a un centro di potere. La giustizia, al di là della presunta ricerca di obiettività, è spesso giustizia per alcuni, per chi è più uguale di altri. Mimmo Lucano ne è un esempio emblematico.
Una società fondata sulla giustizia ha per fondamento la partecipazione, la solidarietà, l’uguaglianza, la differenza, la condivisione…
Il senso di giustizia tocca e s’incontra con la realtà sociale o, meglio, con la forma di società da costruire per avere una giustizia che si fa storia e crea le regole di un convivere in società responsabili, interculturali, inclusive.
Sono possibili sistemi di giustizia differenti o dobbiamo considerare l’esistenza di standard morali, etici, culturali, socio-politici, giuridici validi ovunque?
Esistono differenti concezioni di giustizia, risposte diverse su cosa sia giusto a livello personale e nell’ambito della convivenza sociale, ma bisogna uscire da schemi mentali, da un complesso di fattori che crea ostacoli ad ogni cambiamento, soprattutto quando richiedono profonde revisioni a questioni presentate come ovvie e naturali, mentre sono frutto di processi con pesanti interventi esterni sulla storia di tanti paesi.
Tra i molti possibili esempi, la situazione e le richieste dei popoli originari possono aiutarci a comprendere meglio il problema.
I popoli originari reclamano il riconoscimento del loro sistema giuridico, continuano a lottare per il pieno riconoscimento dei loro diritti e la rivendicazione storica dei loro costumi e tradizioni, soprattutto della giustizia indigena che, come non si stancano di ripetere, non entra in competizione né si oppone alla giustizia ordinaria, non è una giurisdizione diversa ma la completa per contribuire alla pace sociale.
La giustizia indigena deriva dalla loro cosmovisione dove si trovano i principi ancestrali per la convivenza e lo sviluppo della società.
L’antropologa Lucia Pellecer afferma: «È importante considerare che la cosmovisione indigena – intesa come un sistema di pensiero che guida l’agire umano e non come religione, come erroneamente si crede – si fonda su una stretta relazione dell’essere umano con la natura, al cui interno l’umanità è uno dei tanti elementi presenti in essa. In questa visione del mondo si pongono le radici di una relazione di rispetto della vita».
I popoli indigeni latinoamericani hanno nel diritto consuetudinario uno strumento per risolvere i conflitti, esprimere le loro tradizioni, riprodurre la loro identità. Non riconosciuto dalle legislazioni nazionali, sono pressoché costretti ad esercitarlo al margine rispetto alle disposizioni amministrative degli apparati statali.
La fine delle dittature militari in America Latina aprì lo spazio alle rivendicazioni per il rispetto delle loro istituzioni e i meccanismi di autodeterminazione. In alcuni paesi il diritto indigeno ottenne un riconoscimento sostanziale, in quanto parte della rifondazione di uno Stato che si riconosce plurinazionale, come nelle Costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia.
Sono casi rari, per la maggior parte degli Stati con forte presenza indigena, o comunque con minoranze di vario tipo, il riconoscere queste comunità come popoli, quindi con diritti ben precisi di autonomia e autodeterminazione, di fatto rimane soltanto sulla carta, perché in contrasto con gli interessi delle classi economico-politiche dominanti.
Nessuno può negare che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nasce praticamente per volontà delle potenze occidentali e sia in essa che nella Carta dell’ONU è evidente una dicotomia tra diritti umani e diritti dei popoli, ma gli uni non possono esistere senza gli altri.
Ne è un esempio evidente la posizione verso il colonialismo di cui non esiste una condanna esplicita, il suo superamento è visto come una meta, neppure vicina, ma sarà proprio il colonialismo – e poi il neocolonialismo – a creare ostacoli e ritardi nel rispetto dei diritti umani in molto paesi.
Sono in questo senso emblematiche le parole di Henry Kissinger – allora Segretario di Stato – circa il pesante intervento degli USA in Cile nei primi anni ’70[15] del secolo scorso: «Non vedo perché dovremmo stare con le mani in mano a guardare mentre un Paese va verso il comunismo a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli».
È la logica della presenza e intervento delle potenze mondiali – non solo occidentali – nei paesi in cui possono essere messi a rischio i loro interessi economici e di potere.
È la logica che sostituisce presidenti e governi eletti liberamente dai popoli (certo, irresponsabili!!!) con colpi di Stato più o meno blandos, come furono definiti i golpes – sostenuti dagli Stati Uniti – in Honduras, Paraguay, Bolivia, Brasile…
È la logica che ha ucciso Thomas Sankara, arrestato “primavere” di ogni razza e colore, capovolto conquiste sociali e civili in ogni storia e geografia, anche nelle terre del “democratico” Occidente.
Non dimentichiamo gli interventi degli organismi finanziari internazionali, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale in primo luogo. Soprattutto dagli anni ‘80, a partire dalla crisi del debito estero dei paesi del Sud, hanno imposto politiche di aggiustamento strutturale che hanno gravemente inciso sui diritti umani.
Il “risanamento” dell’economia attraverso la riduzione della spesa statale non è avvenuto mediante un’oculata analisi dei costi, ma con tagli alla spesa nei settori che toccano gli strati sociali più deboli; sono così venute meno le precondizioni per soddisfare diritti fondamentali: vita, salute, istruzione, lavoro, casa, dignità, pari opportunità, uguaglianza…
Il percorso per una dichiarazione dei diritti dei popoli è lento e osteggiato perché presenta dinamiche diverse dai diritti umani e coinvolge maggiormente ambiti politico-economici.
Il concetto di “popolo” non ha una precisa inquadratura, ai popoli non viene riconosciuta una personalità giuridica internazionale e i loro diritti vengono confusi con i diritti degli Stati.
Anche se la Carta delle Nazioni Unite del 1945 recita «Noi, Popoli delle Nazioni Unite» e afferma «il principio di uguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli» di fatto non rompe l’identificazione tra popolo e Stato, risulta inoltre una posizione ideologica che non sembra riguardare direttamente i popoli coloniali o dipendenti.
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il principio di autodeterminazione non è affermato, si apre così una contraddizione: il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali è impossibile se ci sono limitazioni alla sovranità di un popolo. E sarà il processo di decolonizzazione a far emergere il protagonismo dei popoli e la rivendicazione dei loro diritti.
Nel 1960 si approva la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e popoli coloniali, ripresa e integrata con altri diritti (allo sviluppo, alla pace…) con i Patti del 1966 dove si dichiara:
«Tutti i popoli hanno il diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.
Per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e risorse naturali, senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di sussistenza».
L’interpretazione di quali fossero questi “obblighi” ha dato luogo a distinguo e concezioni che, di fatto, hanno impedito il pieno rispetto dei diritti riconosciuti come inalienabili. La storia recente non lascia dubbi come tutto si risolse, e si risolve, a scapito dei popoli e a vantaggio delle potenze (ex)coloniali e no.
I diritti dei popoli hanno la magna carta in una dichiarazione “privata”, un importante atto politico non governativo né istituzionale: la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli – meglio conosciuta come la Carta d’Algeri – approvata ad Algeri nel 1976 da rappresentanti di movimenti di liberazione, organizzazioni di difesa dei diritti umani, esponenti del mondo della solidarietà… Tra i caratteri salienti c’è l’importanza data ai principi di autodeterminazione e di non ingerenza.
Nasceranno poi altre dichiarazioni regionali, la maggioranza delle quali hanno nella Carta d’Algeri il punto di riferimento e di ispirazione.
La dialettica tra diritti umani e diritti dei popoli è ancora in atto.
È il popolo che esercita il diritto all’autodeterminazione; il singolo ha diritto allo sviluppo personale, diverso dallo sviluppo socio-economico e alla scelta del modello di sviluppo che spetta decidere al popolo nel suo insieme; il diritto di ogni persona all’accesso alla cultura è diverso dal diritto di un popolo al rispetto ed alla difesa della propria cultura…
Il rapporto tra diritti dei popoli e diritti umani è dialettico: i diritti dei popoli sono la condizione essenziale per il soddisfacimento dei diritti umani – il rispetto dei diritti e delle libertà individuali è condizione essenziale perché i popoli possano giungere a libertà e autodeterminazione.
È necessario rafforzare il rapporto tra sviluppo (inteso non solo come crescita economica), diritti fondamentali e democrazia, con un nuovo orientamento teorico e con un forte protagonismo dei popoli e dei soggetti collettivi per una reale applicazione del principio di libertà e autodeterminazione. Differenti scelte di politica economica possono essere compiute soltanto con la partecipazione effettiva degli individui e dei gruppi interessati alla vita politica, economica e sociale del paese, una partecipazione possibile quando e dove le libertà individuali e collettive siano garantite[16].
Le violazioni dei diritti delle persone e dei popoli derivano non soltanto da azioni e omissioni, ma anche, più in generale, dalla supremazia dell’economia e del mercato sulla politica, dalla crescita delle disuguaglianze, dall’assenza di politiche di genere, da uno sviluppo industriale senza controlli e limiti, dalle devastazioni ambientali, da politiche xenofobe e razziste…
Nonostante le differenze, i popoli indigeni di tutto il mondo condividono problemi comuni. L’ONU riconosce che hanno ereditato dal passato e praticano culture e forme uniche di relazionarsi con l’ambiente naturale, tra di loro e con gli altri, possiedono caratteristiche sociali, culturali, economiche e politiche diverse da quelle predominanti nelle società di cui fanno parte.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni del 2007 li identifica come soggetto di un insieme di diritti fondamentali, individuali e collettivi, essenziali alla loro sopravvivenza.
Si riconosce a queste collettività la condizione di popoli e, come tali, il diritto sulle terre ancestrali, al territorio e beni naturali, all’autodeterminazione, la libertà di decidere il loro presente e futuro secondo le proprie forme di organizzazione e scelte; il rispetto dei sistemi giuridici consuetudinari, il diritto a identità, cultura, lingua, occupazione, salute, educazione ed altri aspetti che permettono uno sviluppo in armonia con la loro visione del mondo e della vita, il diritto a conservare e trasmettere le loro culture e credenze.
In America Latina, con la fine delle dittature, si iniziò a mettere in discussione le vecchie politiche di integrazionismo – l’inclusione nella società esigeva di fatto l’abbandono del loro vissuto, valori, storia, cosmovisione – ed a parlare di nuove modalità di rapporti con i popoli indigeni, decisi a rivendicare la loro presenza e azione e a non permettere più di essere esclusi nella costruzione di un “nuovo paese”.
La storia ha dimostrato che la controffensiva dei poteri forti non tollerò, se non in casi sporadici, il raggiungimento di questi obiettivi. Il capitalismo, il mercato, l’economia finanziaria non accettano ostacoli al loro presunto progresso “per tutti” e, nel caso del mondo indigeno, era evidente che mai sarebbero stati considerati soggetti politici.
Per i poteri economici, che impongono e depongono governi, il furto e il saccheggio è un “diritto” sancito da leggi e norme, mentre opporsi all’appropriazione di boschi, acqua, risorse naturali, terre ancestrali dei popoli originari da parte di transnazionali, viene etichettato come terrorismo.
Scavare miniere che avvelenano acqua e vastissimi territori, mettere a rischio la sopravvivenza di intere comunità è legittimo e legale, un beneficio per tutti, difendere la proprietà comunale contro la privatizzazione della terra, è un atteggiamento intollerabile che deve essere represso con la forza.
Gli interessi economici e di potere distruggono il bene comune sotto la maschera della modernità: secondo la legge di questi poteri, la proprietà comunale è qualcosa di detestabile, inaccettabile, primitivo, incivile.
«Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla»[17].
È un percorso difficile, lento, faticoso per cogliere i risultati parziali, valorizzare le piccole vittorie, dar valore ad ogni passo avanti e scoprire in tutto ciò le vecchie e nuove potenzialità per un futuro migliore dell’intera vita sociale, negli aspetti politici, giuridici, etici, culturali; risultati parziali visti non come momenti a sé stanti ma letti alla luce dell’obiettivo finale e, attraverso di essi, immergerci nei processi socio-politici-culturali del presente.
La speranza – indispensabile – deve unirsi costantemente ad una ricerca intellettuale e ad una tensione morale per cogliere ogni occasione d’intervento, di presenza, di percorso perché c’è sempre la possibilità di un approccio, una qualche finestra – fosse pure una feritoia – dalla quale conoscere il mondo e ritrovare, con un impegno in prima persona, la speranza, “l’utopia concreta” di Ernst Bloch.
La complessità del nostro tempo si esprime in dinamiche di non facile interpretazione, ci troviamo dinanzi a successioni di eventi, fatti, pensieri, situazioni che appaiono senza un ordine, in un intreccio aggrovigliato e confuso da cui però possiamo ricavare numerosi percorsi, trarre correlazioni e aperture in ogni direzione, attraverso quella coerenza attiva che ci impedisce di farci travolgere dall’urto del quotidiano.
Perché sia visibile un’altra storia dobbiamo imparare a guardare da un’ottica diversa: il nostro sguardo ha solo i limiti che noi ci diamo, più sappiamo guardare lontano più mete raggiungeremo.
Affrontare il mondo difficile, complicato, caotico, che stiamo vivendo non per dare un ordine alla realtà ma per comprenderla così com’è, per rompere l’oscurità e rivelare luoghi e momenti di un diverso tempo presente, per incontrare/riscoprire la bellezza del mondo e nel mondo senza timori di delusioni e difficoltà future:
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[18].
Renato Piccini
Paola Ginesi
ottobre 2021
[1] Intervista di Brais Benítez a Max-Neef, «El ríscate financiero es la mayor inmoralidad de la historia de la humanidad», lamarea.com
[2] Costituzione Italiana, articolo 11. Sono notizia recente i 168 milioni stanziati per trasformare i nostri droni militari da ricognizione in armi di attacco e aggressione.
L’Italia «è seconda per soldati e mezzi inviati all’estero nelle missioni Nato dopo gli Stati Uniti. È nona nella “top ten” mondiale per produzione di armi e sistemi d’arma. È il quinto avamposto militare statunitense a livello globale. I nostri porti sono un nodo strategico nella logistica dei trasferimenti di armamenti mentre Camp Darby, che si serve del porto di Livorno, è il più grande arsenale statunitense al di fuori dai confini della madre patria» – (Pressenza 10 ottobre 2021): dell’art. 11 – come di tanti altri – se ne fa carta straccia, la nostra Costituzione, la nostra democrazia si rivelano sempre più fragili e vulnerabili.
[3] Anche questo un “effetto collaterale” degli interventi armati “umanitari”: si seminano bombe, terrore, morte, distruzione con i soldi che si dovrebbero usare per scuole, ospedali, infrastrutture, progetti di sviluppo, una migliore qualità di vita… l’Afghanistan dovrebbe insegnare qualcosa!
[4] Un termine che viene spesso riferito alla Colombia, non si riduce a “dire una menzogna”, ma sono esecuzioni extragiudiziarie, l’assassinio sistematico di civili che, una volta uccisi, venivano vestiti con le uniformi delle forze armate ribelli, quindi “morti legittime” avvenute in combattimento. L’esercito (finanziato abbondantemente dagli USA) presentava così i suoi “successi” sul campo per dare un’immagine di forza e sicurezza. Erano falsi positivi perché a fin di bene per il paese, per combattere il terrorismo. Ma di falsi positivi è piena la storia degli ultimi tempi!
[5] I primi di ottobre è stato pubblicato il rapporto di una missione ONU sulla Libia dove vengono denunciati crimini contro l’umanità e crimini di guerra contro i migranti; sono in particolare segnalate le pratiche aberranti della guardia costiera!
[6] Basta pensare alla cosiddetta flessibilità del lavoro, i rider, chi opera nei call-center, i lavoratori a partita IVA, i precari, gli assunti a progetto… tutte quelle categorie definite «vite di scarto».
[7] Marcelo Dascal, Diversidad cultural y práctica educacional, Ética y diversidad cultural, León OLIVÉ (a cura) Messico.
[8] Boaventura de Sousa Santos, Si Dios fuese un activista de los derechos humanos, EDITORIAL TROTTA 2014.
[9] Afghanistan, una questione di diritti, Limes 23 agosto 2021. La sottolineatura è nostra.
[10] UBUNTU è un’etica/filosofia dell’Africa subsahariana ed esprime la connessione con tutti gli esseri umani; viene riassunta nell’espressione: «io sono perché noi siamo», «io sono in virtù di ciò che tutti noi siamo», un’infinita connessione/scambio dove ognuno prende il meglio dell’altro, al di là di ogni barriera sociale, etnica, religiosa, culturale perché «da soli non si può essere felici». Desmond Tutu ne fece il centro della sua parola e azione, Nelson Mandela lo scelse per principio fondamentale della nuova repubblica del Sud Africa come bisogno di unità e partecipazione nel prendere decisioni per il bene dell’intera società.
[11] Parafrasando il titolo del libro di Gherardo Colombo-Piercamillo Davigo, La tua giustizia non è la mia, LONGANESI 2016, non intendiamo fare alcun riferimento alle tematiche trattate, ma ne utilizziamo il concetto generale per inquadrare le nostre riflessioni.
[12] Renato Piccini, Una riflessione sulla giustizia, Informe duemiladodici-duemilatredici, Fondazione Guido Piccini 2012
[13] Plutarco, Vita di Solone, 5,3-6, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori,19903. La sottolineatura è nostra.
[14] Caites calzature che portano i più poveri, fatte con materiali di recupero corda, gomma, cuoio.
[15] Non inganni la data lontana… l’ingerenza in lungo e largo per il mondo è politica sempre attuale e con strumenti più sofisticati e pericolosi.
[16] Cfr. Luciano Ardesi, Dai diritti umani ai diritti dei popoli, DIAGESTHAI
[17] Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori
[18] Idem
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