Le recenti vicende giudiziarie di Lorenzo Cesa, segretario dell’UDC -Unione dei Democratici Cristiani e Democratici di Centro- richiamano alla mente, per contrasto, come Paolo VI aveva definito la politica: la forma più alta di carità. È una definizione che nei mesi scorsi ho trovato in un articolo giornalistico di Giuseppe Pignatone. Questi mostrava di condividerla ed in effetti, già procuratore della Repubblica a Roma (ufficio che ha degnamente ricoperto, a me pare), è stato poi chiamato ad una rilevante carica giudiziaria presso la S. Sede.
Va da sé che il suddetto contrasto è un contrasto, potenziale: vale sempre una presunzione di innocenza. Il contrasto risulta però effettivo, se consideriamo gli episodi che in passato hanno visto esponenti di forze politiche cattoliche sanzionati da condanne definitive.
Paolo VI evidentemente veniva, con tale definizione della politica, a seguire la strada di definirla (su un piano fra prescrittivo e descrittivo) indicando non metodi, o procedure; ma un contenuto cioè la carità. Che in quanto menzionata da un papa va, ovviamente, intesa come la virtù teologale per la quale l’amore verso il prossimo rappresenta un riflesso dell’amore verso Dio. Con una politica concepita, in tali termini, il rischio di uno Stato confessionale è innegabile!
D’altronde anche a considerare la carità in un senso più ampio, vale a dire come sollecitudine verso coloro che dall’ineguale distribuzione di beni al mondo si trovano assai danneggiati, sta di fatto che un concetto di politica il quale faccia perno su questa carità non terrebbe conto di chi, una sollecitudine del genere, non la avverte. Né di chi avverte, rispetto a tale ineguaglianza, ben più di una sollecitudine e ritiene si debba provvedere diversamente che mediante la carità. Insomma, una concezione della politica come basata sulla carità sarebbe pur sempre meno comprendente, rispetto alle concezioni che la vedono come un terreno su cui -in tema di disuguaglianze e più in generale- gli interessi presenti in una società e le idee presenti in una società portano a decisioni, che variano secondo i singoli sistemi politici.
Ma potrà forse, almeno se ci si limita al piano delle questioni politiche di attualità, aversi un più soddisfacente approccio se a perseguirlo è un complesso di religioni e se non ci si concentra sulla carità? Il mese scorso un documento del genere è comparso su iniziativa del “coordinamento interconfessionale del Piemonte”: e rappresenta, in effetti, un apprezzabile segno di non conflittualità fra varie religioni. In particolare, ecco la firma di un “rabbino capo” affiancarsi a quella di un esponente della “Confederazione islamica italiana”.
La presenza cattolica, peraltro, appare prevalente; anche considerando il diverso peso delle singole firme. Così, una firma si riferisce alla FISM: cui -leggiamo sul suo sito- aderiscono “7600 scuole dell’infanzia… cattoliche o di ispirazione cristiana”: ed a contare risulta indubbiamente l’aggettivo “cattoliche”, tant’è che esiste un “consulente ecclesiastico nazionale” nominato dalla CEI.
Comunque, tale documento presenta laddove si pone su un versante critico, scarsa chiarezza e (quindi) incisività. Si viene a deplorare, nella politica d’oggi, “atteggiamenti culturali ambigui”, la mancanza di “identità e valori”. Ma “identità” vorrà forse dire, “identità religiose”? D’altra parte, tutti i “valori” di cui si lamenta la mancanza sono ritenuti equivalenti, oppure si fa propria una scelta di valori?
Su un versante propositivo, poi, mostra sì un opportuno senso del limite l’affermazione che “dalla fede non si può dedurre direttamente un modello di società, di governo o di partito”. Ma il documento va incontro a banalità e genericità, allorché richiede “responsabilità e coerenza, … capacità di leggere la realtà, fare proposte sensate, creare relazioni, fare squadra”. Come non domandarsi, rispetto alle ultime due richieste: creare relazioni, con chi? Fare squadra, fra chi?
In conclusione non direi che un complesso di persone abbia, sol perché di varie fedi religiose, granché da dire quando si riferisce ad una dimensione che vada oltre il loro diritto a praticare tali fedi. Così come un complesso di persone non avrebbe, sol perché agnostiche o atee, granché da dire quando si riferisse ad una dimensione che vada oltre il loro diritto ad agnosticità ed ateismo.