I dibattiti sui social tra femministe riguardano di preferenza i femminicidi e, secondariamente la politica e i suoi dintorni. Sembra che ci sia una zona interdetta, quella delle donne nell’Islam. Al massimo si dimostra solidarietà alle “donne musulmane discriminate perché portano il velo”. Certamente giusto, ma il femminismo degli anni Settanta a seguire, non ha mai risparmiato critiche alla Chiesa cattolica.
Il primo febbraio, come consuetudine da sette anni, le comunità musulmane di 140 paesi del mondo hanno celebrato la “Giornata Internazionale dell’hijab” con grande enfasi e orgoglio; così anche in Italia dove è stato curato dal Movimento Delle Donne Musulmane D’Italia un video con tanti interventi. Prima di raccontarlo vorrei accennare a quanto dichiarò l’iraniano Ali Khamenei in occasione della istituzione della giornata del velo: “Una donna islamica è colei che è guidata dalla fede e dalla castità. Mentre oggi c’è un quadro deviante, un modello di donna che è offerto dall’occidente. Promuovendo un codice di abbigliamento modesto (l’hijab) l’Islam ha bloccato la tendenza che vuole portare le donne a quello stile di vita deviante.”
Il succinto messaggio è di una chiarezza paradigmatica indiscutibile: il corpo delle donne è simbolo, segno, indicatore di come l’Islam occupa lo spazio pubblico nell’emigrazione. Il video, dunque, per il primo febbraio 2021 mostra l’attuale attivismo di donne immigrate e italiane “ritornate” all’Islam, tutte di appartenenza benestante. Donne con diplomi e lauree, ben inserite nel tessuto sociale con professioni anche di alto profilo. Come d’altronde le protagoniste di un romanzo della consigliera Pd del comune di Milano Sumaya Abdel Qadel intitolato “Quello che abbiamo in testa” (ed. Mondadori, 2019). La protagonista studia giurisprudenza e fa pratica presso uno studio milanese, è sposata con due figlie adolescenti ed è amata da un marito che si guarda bene dal condividere il lavoro domestico perché, come recita un post di un sito su Facebook, gli uomini musulmani non sono obbligati al lavoro di cura, ma benignamente invitati a qualche aiutino. Le amiche del suo gruppo sono velate con professioni di alto profilo. Il filo conduttore è la rivendicazione di portare il velo come libera scelta: “L’idea di essere vista con i capelli al vento –dice la protagonista- mi fa letteralmente arrossire. Eppure sarei sempre io, perché dovrei sentirmi a disagio?”. “È solo dopo l’arrivo del ciclo che la preghiera diventa obbligatoria, così come il Ramadan, e altri precetti. E il velo entra a far parte della vita di molte. All’improvviso un pezzo di stoffa assume un valore molto importante e, per chi vive da questa parte del mondo, si impregna di un grande carico simbolico”. Appunto.
Il velo “Non serve a coprire la bellezza o ad annullare la femminilità: è un gesto di devozione. È un gesto di libertà che non sottrae, ma aggiunge, e puoi tu dirmi che è giusto o sbagliato?”. E non si discute, perché è Allah a imporre la “devozione”. Il romanzo, come il video del 1 febbraio, propone un significato del velo diverso da quello che circola nelle moschee, e che le donne e gli uomini dell’emigrazione non così acculturati ribadiscono anche sui social. Assia Belhadj, autorevole rappresentante del Movimento delle Donne Musulmane d’Italia, in un sito Facebook scrive:” Sappi che tua libertà finisce quando diventi prigioniera di immagini, concetti e mode disegnate per te, tessute e inscatolate, e ciò che sei non è altro che il più appropriato da indossare e afferrare. Sii libera di scegliere rispetto alla moda che simula la realtà dell’essere, della mente, dell’anima e del corpo. Sii un’entità basata sulla castità, modestia e completa libertà, sottomessa solo a Dio”. A fronte di questa lapidaria dichiarazione, si collega bene la seguente risposta:” Oggi è la Giornata mondiale del velo. Gli attivisti musulmani celebrano un simbolo di sottomissione cercando di farlo passare agli occhi del mondo per un simbolo di libertà. Qualche militante di sinistra e qualche finta femminista li sostiene, facendo pubblicità al patriarcato. Potete ingannare voi stessi/e e apprezzare la vostra schiavitù ma smettetela di ingannare il mondo! Smettetela di usare impropriamente la parola “libertà” per far apparire un pezzo di stoffa scelto dagli uomini per le donne come una libera scelta. E sappiate che la libertà di scelta per essere praticata ha bisogno prima di tutto della libertà. E questa libertà non è parte del mondo che sostiene il velo!
Questo mondo dice che una donna che indossa l’hijab è una donna con una morale che andrà in paradiso, mentre colei che non lo indossa è immorale e andrà all’inferno. Questo sistema si complimenta con la donna che decide di indossare l’hijab e guarda dall’alto in basso la donna che se lo toglie. Questo sistema fa sentire nuda una donna che non indossa l’hijab. Dov’è la libertà in tutto ciò?” (Hamed Abdel-Samad, Micromega, 1.2.2019)
Quasi ossessivamente si ripete che l’hijab, e l’intero precetto coranico rispetto al corpo femminile coperto, tutela l’integrità della donna, proteggendola dagli sguardi erotici maschili con conseguenze quali la molestia verbale, fisica e lo stupro. Va da sé che più o meno esplicitamente si afferma che le donne “occidentali” la violenza dei maschi se la meritano per l’immodestia nel vestire. Su Facebook nei siti di musulmani in Italia, si legge che nei Paesi islamici non esiste violenza per le strade contro le donne.
Coprirsi, si ripete nel video della giornata internazionale del velo, è “rispetto verso stessa e il proprio corpo” e il velo, l’hjiab, manifesta la felicità, l’espressione, la libertà e l’amore di Dio. Lo propone una donna “fiera della propria identità”. Nel video appare anche l’autorevole psicoterapeuta musulmana Chiara Sebastiani. Lei spiega le dimensioni “intima e sociale” dell’hjiab. Sul “piano intimo”, perché la donna musulmana mette il velo in casa per pregare e in presenza di estranei è un aiuto per la messa in contatto con Dio. Poi viene il contatto con la società dove l’hijab permette di venire individuata come musulmana: è il compito affidato da Allah al genere femminile. Ovviamente, essendo la Sebastiani di scuola junghiana, ne consegue che il velo sia anche un archetipo, un universale astorico. Con buona pace di ogni lettura antropologica rispetto al paradigma patriarcale.
Emerge però una differenziazione sottile tra le posizioni delle donne più acculturate e di seconda generazione: alcune mettono l’accento su velo e abbigliamento di copertura come protezione del corpo contro i maschi erotizzati, come testimonianza visibile dell’esistenza delle comunità islamiche in occidente e come contrapposizione alle donne, alle femministe, che rivendicherebbero la loro libertà mostrando parti del corpo, altre preferiscono –come nel romanzo citato- evidenziare semplicemente l’atto di devozione, di amore per Allah. Perché Allah avrebbe imposto questo precetto, questo atto d’amore e devozione alle donne?
Spesso sui social si leggono alcune tesi ripetute pari pari. Ascoltate nelle moschee? Per esempio: la madonna appare nell’iconografia sempre velata (cosa non vera, come si può notare ad esempio, nel Polittico di Sant’Antonio, 1469 c., alla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia), le suore cattoliche portano il velo (altrettanto non sempre, dato che anche molti ordini e congregazioni dopo il Concilio hanno cambiato la divisa dei tempi delle fondazioni). È sempre assente la contestualizzazione storica, l’evoluzione sociale dell’abbigliamento. Se lo si fa notare immediata è la risposta: se non tutte le suore portano il velo e se una volta le cattoliche lo mettevano in chiesa ed ora no, la causa sta nel tradimento che i cristiani hanno peraltro sempre esercitato sui testi sacri. Amen. Inutile invitare a una riflessione sulla moda che è sempre esistita e sempre ha fatto seguito all’evoluzione dei costumi sociali, morali ecc… non essendo un qualcosa al di fuori, al di sopra dell’umana convivenza. Il corpo femminile coperto, delle donne “occidentali” fino al primo ‘900, forniva eccitazione al maschio quando, sollevando la lunga veste, si scopriva una caviglia peraltro avvolta in calze scure. Le donne africane -ancora in certe località- avvolgono il corpo di teli senza coprire il seno: immodeste? Vogliose di eccitare i maschi? Piuttosto le donne musulmane ripropongono in “occidente” la binarietà tradizionale religiosa anche cristiana ed ebraica tra puro e impuro, dove il corpo femminile occupa, se spoglio, il ruolo di impuro; con perdita dell’aura di sacralità, di soglia inviolabile e violabile solo dal maschio marito.
Il corpo femminile oggetto di controllo e di scambio tra i maschi che ha permeato il sociale strutturandolo lungo i secoli del patriarcato, non è oggetto di un pur minima considerazione storica. Le appartenenti alla borghesia musulmana rivendicano il loro affermarsi nelle professioni -e ora anche nella politica- ma dentro la cornice dei ruoli eterni tra i sessi, compreso il ruolo di testimoniare l’Islam in terra di infedeli con il loro capo coperto.