Di Flavia Zucco (*)
Sarebbe ora che la Chiesa facesse il suo mestiere e ripiegasse, per difendere la vita, sulle argomentazioni che le sono proprie. È sorprendente come la parola anima non sia stata mai pronunciata nel dibattito sulla natura/vita umana da chi ne rivendica la titolarità e come, in uno slancio di modernità riduzionista, abbia piuttosto puntato sull’unione dei due DNA come momento dell’identificazione della nuova persona (per inciso, ciò avviene non al momento della fecondazione bensì due-tre giorni dopo). Abbia il coraggio, la Chiesa, di parlare di acquisizione dell’anima, ci spieghi, nel caso di una successiva divisione gemellare del pre-embrione, cosa succede a questa anima già insediata: si sdoppia? anche l’anima ha una divisione cellulare? Ma questo dell’anima è forse un concetto antiquato, che richiederebbe alla Chiesa di fondare le sue argomentazioni su dogmi non facilmente riconoscibili nella società secolare in cui viviamo.
Ciò che sto dicendo può sembrare una provocazione, in realtà vuole richiamare la Chiesa a svolgere il proprio ruolo, a difendere con chiarezza i dogmi per i credenti e per conquistarne altri, se ne è capace, ma a non misurarsi sul terreno della scienza e a sostenere, contro ogni evidenza scientifica e, mi si lasci dire, anche contro ogni senso comune, che l’embrione è persona umana. E, proposito del continuum che unisce l’embrione al feto e questo al neonato e così via, perché allora identifichiamo diverse età della vita e le denominiamo con termini precisi? Forse che chiamiamo un vecchio “bambino”?
Assimilare la cellula fecondata a una persona non aiuta l’embrione a esserlo nell’immaginario comune, ma declassa il corpo a supporto di un’identità biologica immutabile e incompleta. In realtà, il corpo è il tramite col mondo (si diceva, infatti, “venire al mondo” o “venire alla luce”): è con il corpo, in tutta la sua complessità e ricchezza di funzioni, che si costruisce l’identità di persona, mediante le relazioni fisiche e mentali con l’ambiente naturale e culturale in cui esso si trova. Se una cellula con un dato DNA è persona, allora dovrebbe esserlo anche ogni cellula del mio organismo, visto che il DNA è generalmente presente in ogni cellula.
Affrontare gli argomenti sommariamente enunciati in precedenza sarebbe essenziale e pregiudiziale a qualunque dibattito; ma, a mio avviso, la riflessione si deve spingere più in là. Infatti, le posizioni prese recentemente dalla Chiesa hanno delle implicazioni molto gravi nella proposizione di principi fondativi del vivere comune e nell’elaborazione di una cultura adeguata alla complessità delle sfide sociali, scientifiche ed etiche che il futuro ci pone.
La prima è l’adozione di un riduzionismo esasperato, supportando coloro che sposano un’idea meccanicistica dell’essere umano, in un’epoca dove le semplificazioni trionfano e fanno piazza pulita della complessità del mondo in cui viviamo e degli esseri che lo abitano.
L’identità della persona, ridotta a una molecola o, al massimo, a una cellula, non aiuta a valorizzare la vita umana, bensì ne propone una concezione generica che assolve da approfondimenti più seri e rilevanti su quello che è poi la vita reale degli esseri nati. La sacralità della vita umana, a prescindere dalla corporeità, risulta facilmente contrabbandabile come principio etico. È un modo riduttivo di porre il problema, ma indubbiamente efficace, perché aiuta ad astrarre dalla realtà le vite realmente vissute, per ricondurle a un immaginario semplificato, ai margini dell’ovvietà. Ci dica la Chiesa quale è il suo rapporto con la scienza e la tecnica: va bene per salvare i neonati prematuri, per mantenere in vita malati terminali, ma non va più bene per prevenire maternità e paternità non volute, per studiare sugli embrioni i meccanismi dello sviluppo umano, la cui conoscenza ci aiuterebbe a non “sperimentare” su esseri non ancora compiuti come i prematuri?
Un’altra implicazione è quella della promozione della sofferenza a elemento essenziale alla vita stessa. Anche questo è uno atteggiamento pericoloso che può consolidare quel pensiero, oggi così diffuso, per cui aggiungere sofferenze a quelle già date non cambia di molto il contesto del mondo. L’azione dell’uomo tesa a diminuire o prevenire sofferenze appare di valore secondario rispetto a quei principi che invece la valorizzano. Laddove ci dovrebbero essere condanne forti per chi produce dolore (e non solo fisico) ci troviamo di fronte a flebili richiami.
Una volta la Chiesa sosteneva che la sofferenza era una prova mandata da Dio, da affrontare con la fede. Ma ora, con i suoi dettami, la Chiesa si fa essa stessa promotrice/produttrice di sofferenza, per esempio col sostenere l’uso di tecnologie avanzate per fare vivere neonati prematuri, destinati al 75% a un’invalidità neurale o a tenere artificialmente in vita malati terminali. Il sesso stesso dei nati prematuri potrebbe non essere pienamente sviluppato, producendo così delle situazioni di indeterminatezza identitaria, dal punto di vista del genere, destinata poi dalla Chiesa stessa a essere bandita e colpevolizzata. Lo stesso destino corporeo dell’embrione viene ignorato: le sofferenze che possono derivargli da una malattia genetica grave o da una nascita prematura vengono liquidate in fretta dicendo che si risolve con l’amore per la vita (la madre se ne prenderà cura). Importa poco che questa figura di mediazione non sia eterna.
La più esplicita delle implicazioni è la cancellazione della donna come soggetto autonomo e corporeità vulnerabile: operazione pericolosissima in un’epoca in cui questa è sottoposto ad aggressioni e violenze di ogni tipo, che aiuta a rimuovere la gravità delle azioni compiute, ad assolvere da colpe innominabili.
Quasi sempre ci si dimentica che alla base di qualunque pensiero o azione che riguardi la procreazione ci sono una donna e il suo corpo: la si cancella del tutto, per esempio, quando si parla di ovociti, uteri e così via, come se fossero entità autonome da un corpo dato, salvo poi caricarla di tutte le colpe nei confronti della gravidanza. La donna, infatti va ancora posta sotto tutela giuridica, come se fosse un soggetto non in grado di esercitare pienamente la sua libertà di scelta. “Le si assegna così poco credito e così poco potere che diventa necessario proteggerla indirettamente da un potenziale cattivo uso del suo corpo” – afferma R. Pollack, un biologo non riduzionista, ma animato da principi etici chiari. Le deve essere prescritto per legge cosa deve (o non deve) fare, perché altrimenti, anche se credente, la sua testa e la sua coscienza non sarebbero all’altezza di operare scelte coerenti con i principi della comunità.
Grave appare anche il fatto che la Chiesa rafforzi la messa in ombra (tanto comoda!) del ruolo degli uomini nella sessualità, nella fecondazione, nella paternità.
Si vogliono spendere due parole sul loro ruolo? Si vogliono rendere espliciti i fantasmi che agitano la sessualità maschile a questo proposito? Se fosse vero che gli uomini hanno un ruolo collaterale, sarebbe bene che stessero zitti e a legiferare fossero le donne. Se così non fosse, allora si parli chiaramente delle loro responsabilità nei confronti di donne e figli, si mettano a fuoco anche i loro desideri e coinvolgimento, perché la discussione sia a tutto campo. In questo caso, anche single e coppie omosessuali dicano chiaramente la loro, perché se non solo di famiglia biologica tradizionale vogliamo parlare, dobbiamo investire tutta la società di questo problema e enunciare ad alta voce i principi di affetto, solidarietà e responsabilità che devono legare le persone tra loro.
Gravissima, infine, è la mancanza di coerenza nelle argomentazioni che, invece di aiutare a identificare dei valori di riferimento, promuove un disorientamento pericoloso delle coscienze, contribuendo così alla solitudine degli individui nelle scelte di vita, già dilagante nella nostra epoca.
La scelta di sposarsi per avere figli è quella che la Chiesa riconosce come sola rispondente al sacramento del matrimonio. Perché, dunque, volere un figlio a tutti i costi dovrebbe essere una colpa anche penalmente perseguibile? Quale senso, allora, dovrebbe avere la vita di una coppia, se non può realizzare un progetto di genitorialità solo per motivi legislativi? Escludendo la fecondazione in vitro cosiddetta eterologa, si impoverisce anche il significato stesso dell’adozione, (nonostante questa venga, poi proposta, con spregio della coerenza, come alternativa alla stessa). Si afferma l’importanza delle due figure genitoriali e si vietano, per legge, maternità e paternità ai singoli; ma non si condannano con altrettanto rigore l’invio di giovani padri in guerra e si santificano donne che accettano di sacrificare la vita per dare alla luce un figlio, rendendolo orfano insieme a quelli precedentemente nati.
Si parla di revisione della 194, per migliorare la prevenzione: perché allora non educazione sessuale nelle scuole? Perché non l’adozione di contraccettivi?
La Chiesa dovrebbe stare attenta a non sconvolgere un immaginario simbolico che essa stessa ha contribuito a costruire.
Per quel che riguarda la maternità e la paternità, secondo quanto ci è stato raccontato per secoli dalla Chiesa, la Madonna è vergine, Giuseppe non è il padre biologico di Gesù e i suoi cromosomi (lo abbiamo appreso qualche anno fa da un cardinale) non erano né dell’uno né dell’altro. Queste figure sono il riferimento delle coppie cristiane, eppure la Chiesa sembra dimenticare il valore dei simboli, cui pure molto ha affidato del suo messaggio. Si può proprio dire che la confusione è massima sotto il cielo (o in cielo)?
Basta, dunque, con tutta questa arrogante superficialità, fa male alle persone strumentalizzate e colpevolizzate nella vita privata e personale. Basta con ingerenze, che vorrebbero costringere una società, già abbastanza dilaniata da dubbi, a ubbidire a confusi e contraddittori imperativi, che certo non risolvono nelle coscienze l’angoscia di scelte che riguardano i propri destini futuri.
Il testo citato dall’autrice è:
Robert Pollack, I segni della vita. Il linguaggio e il significato del DNA, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 204
L’articolo, gentilmente concessoci dall’Autrice, è stato pubblicato nel sito www.steppa.net
(*)Flavia Zucco è biologa, dirigente di ricerca presso l’Istituto di Neurobiologia e Medicina Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Coordinatrice di progetti europei di ricerca e membro di comitati editoriali di riviste internazionali, è esperta europea per la Commissione di valutazione di progetti. Specializzata nei meccanismi di azione di xenobiotici su colture cellulari e nella messa a punto di modelli di screening di sostanze potenzialmente tossiche, è docente di Bioetica presso l’Università della Tuscia, e Presidente dell’associazione Donne e scienza. Uno degli scopi principali dell’associazione è la promozione dell’ingresso e della carriera delle donne nella ricerca scientifica.
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