Chi detiene il potere ha la possibilità di riscrivere la storia secondo i propri interessi, e a tal fine non è necessario mentire: basta evidenziare una parte della verità e nascondere accuratamente l’altra. Potrebbe sembrare questa la via scelta da Benedetto XVI nel Messaggio indirizzato il 17 marzo 2011 al Presidente Napolitano in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia: ben pochi studiosi, infatti, si riconoscerebbero nella ricostruzione della storia italiana operata dal pontefice.
Dopo aver ricordato che “la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale” il papa afferma che “Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali” e sottolinea che grandi artisti come “Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini” nel corso dei secoli, “hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana”.
Sin dall’inizio si dà quindi per scontato il nesso tra il cristianesimo e ‘l’opera della Chiesa’ e si suggerisce l’idea che, come il cristianesimo, anche la presenza della Chiesa, a partire dalla sua gerarchia, sia stata sempre e soltanto benefica e che tale sia stata considerata da tutti. Il che non è affatto vero: anzi, persino alcuni degli autori citati dal papa giudicavano in modo assolutamente negativo la gerarchia ecclesiastica. Dante, per esempio, nella Divina Commedia pone in bocca a Pietro una violenta invettiva contro i papi del tempo, lupi che travestiti da pastori sbranano il gregge cristiano invece di custodirlo, portando il papato a livelli di corruzione inimmaginabili: “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio … , fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza … In vesta di pastor lupi rapaci si veggion di qua sù per tutti i paschi … o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi!”(Paradiso XXVII, 22-23, 25-26, 55-56, 60).
E Petrarca ha una pessima opinione della corte pontificia, tanto da parlarne nel Canzoniere come di “nido di tradimenti, in cui si cova quanto mal per lo mondo oggi si spande: de vin serva, di letti e di vivande, in cui lussuria fa l’ultima prova … scola d’errori e templo d’eresia … fucina d’inganni”(CXXXVI, CXXXVIII). Se questi autori apprezzavano poco ‘l’opera della Chiesa’, tanti altri intellettuali che il papa non cita (la tradizione culturale italiana non è caratterizzata solo dagli artisti) l’apprezzavano ancor meno, anche se magari ammiravano il messaggio evangelico.
Marsilio da Padova, per esempio, scrive nel Defensor pacis che nella curia papale “si fanno piani accurati per invadere delle province cristiane … ma non vi si vede nessuna preoccupazione e nessun disegno per guadagnare le anime”(II, 16). Opinione condivisa dal Boccaccio che, in una novella del Decameron, rileva con ironia che in genere gli ecclesiastici sembra che “si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella”(I, 2).
E il papa fa bene a non parlare di autori come Machiavelli, Ariosto, Guicciardini o Giordano Bruno: le citazioni di pesanti giudizi sulla chiesa gerarchica tratte dai loro scritti si potrebbero moltiplicare all’infinito e sarebbe certo difficile sostenere che essi non siano espressione del modo di sentire del popolo italiano e non lo abbiano a loro volta influenzato.
Assieme agli artisti il papa ricorda l’azione benefica delle ‘istituzioni educative ed assistenziali’ fondate dalla Chiesa, ma dimentica altre iniziative ecclesiastiche che hanno avuto effetti non meno rilevanti, e non proprio positivi, sulla società europea e in particolare italiana. La caccia alle streghe, per esempio, è stata avallata dall’autorità ecclesiastica, che con Innocenzo VIII ha autorizzato due teologi domenicani a “punire, incarcerare e correggere” (Summis desiderantes affectibus, 1484) le persone, soprattutto donne, colpevoli di stregoneria. Come escludere che la paura della donna che caratterizza la gerarchia cattolica abbia contribuito alla svalutazione del sesso femminile e alla diffusione, specialmente nella società italiana, dell’idea della sua malizia?
Ancora, sia l’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione, riportato in vita da Paolo III, che la creazione del ghetto per gli Ebrei e la pubblicazione dell’Indice dei libri proibiti ad opera di Paolo IV hanno certamente favorito un clima di intolleranza e di repressione del libero pensiero: se noti intellettuali vengono mandati al rogo, come Giordano Bruno, o costretti ad abiurare, come Galileo Galilei, è inevitabile che si diffonda un clima di paura. Gli Italiani che dissentono sono ridotti al silenzio, e così li si abitua a un ossequio esteriore e ipocrita, inducendoli a tenere per sé le loro critiche. Si capisce come uno scrittore dell’epoca possa arrivare a giustificare moralmente la dissimulazione, dato che fingere di apprezzare ciò che in cuor proprio si detesta è l’unico modo di salvare la pelle: “si concede talor il mutar manto per vestir conforme alla stagion della fortuna”(Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, 1641). E anche oggi un atteggiamento ipocritamente ossequioso verso chi, di volta in volta, è al potere caratterizza lo stile di vita di tanti italiani.
Ignorando la cappa di conformismo caduta sull’Italia della Controriforma, il papa prosegue invece con malcelato entusiasmo: “L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, […] la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia […] ha potuto aver luogo […] come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo”.
In realtà, se già alla fine del Settecento c’è in Italia un risveglio culturale e politico, ciò è in buona parte dovuto alle idee e ai fermenti che giungono dal pensiero illuminista e dalla Francia rivoluzionaria che diffonde in Europa gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza. Principi di libertà di pensiero, di stampa, di religione … che Pio VI si affretta a condannare: “si stabilisce come un principio di diritto naturale che l’uomo […] possa liberamente pensare come gli piace, e scrivere e anche pubblicare a mezzo stampa qualsiasi cosa in materia di Religione. […] Ma quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi” (Quod aliquantum, 10/3/1791). E se i principi di libertà e uguaglianza, grazie anche alla condanna ecclesiastica, non hanno caratterizzato a sufficienza quella che oggi il papa chiama identità italiana forse non c’è molto da rallegrarsi.
Problematico, persino per Benedetto XVI, affrontare poi il periodo dell’unificazione italiana realizzatasi nell’Ottocento con l’apporto decisivo di uomini che proprio cattolici non erano. Dopo avere riconosciuto che “Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo” e che non si può “negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste”, il papa se la cava sottolineando il contributo di cattolici come Gioberti, Manzoni o Rosmini e stendendo un velo di silenzio sugli altri protagonisti del Risorgimento.
In effetti, meglio citare Manzoni e ignorare Leopardi, che scrivendo al fratello si diceva avvilito nel vedere nella Roma pontificia “i più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati…, la filosofia disprezzata come studio da fanciulli” (A Carlo Leopardi, 16/12/1822), e che considerava la società italiana tutt’altro che plasmata dagli ideali evangelici: “Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci” (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani).
Dello stesso Manzoni non si dice però che, contrario al potere temporale, accettò la nomina a senatore a vita, recandosi a Torino per votare la proclamazione del Regno d’Italia, né che nel 1870, nonostante le dure prese di posizione di Pio IX, salutò con gioia l’entrata delle truppe italiane a Roma e la fine dello Stato pontificio, né che nel 1873 morì quindi scomunicato.
Ma neanche Gioberti e Rosmini sono stati apprezzati dall’autorità ecclesiastica quando hanno rivolto critiche all’istituzione: infatti sono stati posti all’Indice il Gesuita moderno del primo (ma di Gioberti sarà presto condannata l’intera produzione filosofica) e Delle cinque piaghe della santa Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale del secondo. Le proposte di rinnovamento della tradizione cristiana in senso liberale e la stessa corrente neoguelfa, oggi lodata dal papa, non hanno affatto goduto nell’Ottocento dell’appoggio della Santa Sede.
La manipolazione del passato diventa addirittura clamorosa quando vengono pudicamente liquidati con un breve cenno a ‘tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste’ grandi protagonisti del Risorgimento come Cavour, Mazzini e Garibaldi.
Da liberale, Cavour era favorevole allo Stato laico, e quindi separato dalla Chiesa, e nel suo primo discorso in parlamento, subito dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, riprendendo l’espressione del cattolico liberale francese Montalembert – libera Chiesa in libero Stato – chiese a Pio IX di rinunciare al potere temporale in cambio della garanzia della più completa libertà in campo spirituale. Separare lo Stato dalla Chiesa? Proposta ritenuta semplicemente indecente, ieri come oggi!
Mazzini considera addirittura il papato modello di ogni forma di tirannia e accusa apertamente la chiesa istituzionale di tradire il vangelo rinviando la salvezza nell’aldilà: “Libertà, eguaglianza, voi dite, nel cielo e non sulla terra. No; questa assurda distinzione non è nel Vangelo; e il disprezzo della terra non cominciò ad insegnarsi ai credenti se non da quando la Chiesa si diede a Cesare, e il suo capo visibile, fatto principe anch’egli, innamorò della terra tanto da volerne parte, e serbarla anche a prezzo di sangue de’ suoi fratelli” (Lettera al clero italiano 1850).
Pur profondamente religioso, Mazzini è convinto che la chiesa cattolica abbia fatto il suo tempo e che sia giunta l’ora che i popoli divengano protagonisti della storia: “Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione; di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il Popolo Italiano, la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio e il pensiero delle Nazioni” (I Doveri dell’uomo – Prefazione).
Ed è noto anche quanto Garibaldi detestasse Pio IX e i preti reazionari: “quelli stessi che, falsando le massime sublimi di Cristo, alle quali sostituirono la menzogna, hanno patteggiato coi potenti per far schiava l’Italia! […] quelli stessi che per isfogare la loro libidine dettero al mondo lo spettacolo spaventevole dei roghi! che rinnoverebbero oggi, se il buon senso delle nazioni non li trattenesse. [… Il papato è] un potere che non si occupa che a corrompere la nazione, che a rubare ai nostri poveri fratelli il loro oro per gozzovigliare schifosamente e comprare mercenarî stranieri per combattere gli Italiani! […] Nel centro di quest’Italia vi è il canchero che si chiama il Papato! l’impostura che si chiama il Papato!” (Proclama agli studenti di Pavia 24/12/1859).
È evidente che il contrasto tra Pio IX e i protagonisti dell’unificazione politica dell’Italia non è di carattere personale: il papa considera errori dottrinali da condannare senza riserve gli ideali per cui quegli uomini si battevano. Ecco alcune delle tesi che nel 1864 Pio IX bolla nel Sillabo come affermazioni contrarie alla fede: “LV. È da separarsi la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa”, “LXXVI. L’abolizione del civile impero, che la Sede apostolica possiede, gioverebbe moltissimo alla libertà ed alla prosperità della Chiesa”, “LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e colla moderna civiltà”.
Ma Pio IX non si limita a condannare le teorie, liberali democratiche o socialiste che siano: colpisce anche gli uomini, scomunicando nel novembre del 1870 tutti i responsabili della presa di Roma, e provoca una profonda divisione nel Paese proibendo col Non expedit ai cattolici di partecipare alle elezioni, nella speranza che in seguito al crollo dello Stato unitario, indebolito dall’astensionismo cattolico, possa rinascere lo Stato pontificio. Se “Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese”, ciò fu quindi dovuto, pure se Benedetto non lo dice, a quei cattolici che disubbidirono a Pio IX.
Nel Novecento l’unità italiana non è più in discussione e allora la Santa Sede cerca una soluzione della Questione Romana “confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano”. Ma se “La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema”, forse ciò fu dovuto, più che al ‘senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano’ al desiderio di Mussolini di assicurarsi i vantaggi derivanti dalla gratitudine dei cattolici per l’avvenuta ‘Conciliazione’ tra Stato e Chiesa.
Che il concordato sia concluso da un uomo che, istaurando un regime totalitario, ha causato all’Italia una serie di sciagure, non preoccupa Benedetto XVI come non preoccupava Pio XI che nel 1925, nell’enciclica Quas primas, pochi mesi dopo il delitto Matteotti, ribadiva l’obbligo di obbedire ai governanti perché l’autorità viene dall’alto: “ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui, o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo”.
E infatti Pio XI espresse un entusiastico giudizio sul Concordato appena firmato parlando ai professori e agli studenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore: “Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi … erano altrettanti feticci … tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. … [Con lui siamo riusciti] a concludere un Concordato che, se non è il migliore di quanti ce ne possano essere, è certo tra i migliori”.
In effetti, che i dittatori siano liberi da scrupoli di tipo liberale è certo! E la soddisfazione per la firma dei Patti Lateranensi è così grande che persino nel 1938, quando sono appena state approvate le leggi razziali, fortemente discriminatorie nei confronti degli ebrei, Pio XI ci tiene ad esprimere ancora la sua gratitudine in occasione di un discorso al Sacro Collegio: “Occorre appena dire, ma pur diciamo ad alta voce, che dopo che a Dio, la Nostra riconoscenza e i Nostri ringraziamenti vanno alle eccelse persone – cioè il nobilissimo Sovrano e il suo incomparabile Ministro – cui si deve se l’opera tanto importante, e tanto benefica, ha potuto essere coronata da buon fine e felice successo”.
Evidentemente, se non si dà un giudizio negativo nemmeno sul fascismo, è facile immaginare quanto positivamente, e senza ombre di sorta, sia vista da Benedetto l’Italia governata dalla Democrazia Cristiana, il periodo in cui i cattolici hanno dato “un contributo assai rilevante alla crescita del Paese”. Gli ottimi rapporti tra le due sponde del Tevere proseguono col governo a guida socialista: “La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia”, e infatti grazie a tale accordo voluto da Craxi si rafforza la collaborazione tra lo Stato e la Chiesa, la quale pur perdendo consenso tra i fedeli vede accrescere il suo peso politico sino a pretendere, ormai da diversi anni, che alla sua morale siano conformi le leggi approvate dal parlamento.
A sentire il papa, sembra che “Passate le turbolenze causate dalla ‘questione romana’, giunti all’auspicata Conciliazione”, tutto vada ormai per il meglio, grazie soprattutto alla salda identità nazionale “così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche”, e sia quindi possibile unirsi al coro delle retoriche celebrazioni del 150esimo anniversario, che forse cade in uno dei periodi più oscuri della storia dell’Italia unita. Che questo popolo dalle forti ‘tradizioni cattoliche’, che ha prodotto personalità di eccezionale grandezza, conosca oggi una regressione morale, civile e culturale che suscita stupore presso tutti gli osservatori stranieri, e appaia anche agli occhi di non pochi italiani sempre più composto da individui dalla bassa scolarizzazione, privi di senso del dovere, inclini al servilismo, sedotti da localismi tribali, dominati da ‘familismo amorale’, schiavi della mentalità consumistica e incapaci di una religiosità che non si riduca a pratiche esteriori, tutto ciò non suscita alcun allarme in Vaticano.
Sono altre le cose che contano: le chiese, è vero, sono frequentate da fedeli sempre meno numerosi e sempre più anziani, ma crescono l’influenza della chiesa romana sui governi, la sua visibilità sui media, e i finanziamenti ottenuti dallo Stato. Gli obiettivi che non sono stati conseguiti a livello europeo per il mancato riconoscimento, sino ad ora, delle radici cristiane, sono stati infatti pienamente raggiunti in Italia con la creazione del mito dell’identità cattolica del nostro popolo.
Che per Benedetto XVI il bilancio di questi 150 anni sia positivo è quindi ovvio. Meno positivo è quello dei cittadini che vorrebbero un’Italia ben diversa, davvero unita, laica, democratica, in cui si mettono in pratica i principi della Costituzione repubblicana; che perciò sentono ancora attuali le parole scritte da Mazzini nel 1866: “Gli italiani non hanno un senso di missione […] di dignità d’uomini e cittadini […] sono rimasti servi nell’anima, nell’intelletto e nelle abitudini, servi a ogni potere costituito, a ogni meschino calcolo d’egoismo, a ogni indegna paura” (G. Mazzini, La questione morale, S.E.N., vol. LXXXIII); e comprendono i sentimenti che portarono Garibaldi, nel 1880, a dare le dimissioni dal parlamento italiano, dimissioni annunciate scrivendo, al giornale La Capitale, di non voler “essere tra i legislatori di un Paese in cui la libertà è calpestata e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà dei gesuiti [degli uomini di potere] e dei nemici dell’unità d’Italia. Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa, miserabile all’interno e umiliata all’estero”.