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Il gallo, intervista sull’omosessualità: primato della persona e della relazione

Intervista a Giannino Piana

L’amico Giannino Piana, autore di un saggio sull’omosessualità  —  Omosessualità. Una proposta etica, collana L’etica e i giorni, Cittadella editrice 2010, pp. 122, 9.80 € — ci ha rilasciato un’intervista che tocca aspetti rilevanti del delicato problema. Lo ringraziamo caldamente.

Nel tuo libro, che riflette sugli aspetti etici della questione omosessuale, dedichi alcune pagine alla delineazione della cause che provocano tale orientamento. Si è giunti finalmente a individuarne con precisione l’origine?

Il dibattito sulle cause che determinano l’orientamento omosessuale è tutt’altro che chiuso. Sembra tuttavia assodato il riconoscimento che tale orientamento è la risultante di un intreccio articolato di fattori di diversa natura – biologici, psicologici, sociali e culturali – che interagiscono tra loro in misura diversa a seconda dei vari soggetti e della varietà delle situazioni esistenziali, e che danno luogo a diverse modalità di vivere l’esperienza omosessuale. Nella sua dimensione più profonda l’omosessualità – come del resto l’eterosessualità – è avvolta nel mistero; essa è infatti strettamente legata al mistero della persona, al modo di essere-al-mondo e di rapportarsi all’altro che le è proprio.

Per questo più che di omosessualità, si dovrebbe parlare di «persone omosessuali», di soggetti che vivono in maniera prevalente e stabile l’attrazione sessuale verso persone dello stesso sesso – è questo il dato che li accomuna – ciascuno però secondo la propria peculiare identità.

L’omosessualità è sempre stata dalla chiesa duramente condannata. Esistono nella Bibbia chiare indicazioni a sostegno di questa condanna?

La Bibbia è stata spesso chiamata in causa dalla tradizione cristiana a giustificazione della condanna dell’omosessualità. In realtà l’omosessualità occupa in essa un posto del tutto secondario e periferico rispetto ad altre azioni negative, quali l’idolatria, l’omicidio, l’ingiustizia, l’oppressione dei poveri sulle quali si esercita il giudizio di riprovazione della rivelazione. Nell’Antico Testamento sono soltanto cinque (sei secondo alcuni esegeti) i passi che si richiamano a essa: il più celebre è il testo di Genesi 19, 1-29 in cui viene riportato l’episodio di Sodoma, dove a essere fatti oggetto di condanna morale, più che l’omosessualità, sono la violenza e il mancato rispetto dell’ospitalità.

Decisamente  più  duro  è  invece  il  giudizio  espresso  nel  testo  di  Levitico  18,  22,  dove l’atto omosessuale maschile (quello femminile è nell’Antico Testamento del tutto ignorato) viene definito come un abominio e inserito nell’elenco delle trasgressioni punibili con la morte. Senza dubbio – come sostengono alcuni esegeti – il rigore biblico nei confronti dell’omosessualità è anzitutto dettato da motivazioni religiose, dall’esigenza cioè di mantenere puro il monoteismo. mettendolo al riparo da tentazioni idolatriche: l’omosessualità era per i Cananei una pratica da utilizzare per mettersi in contatto con la divinità. Difficile tuttavia sostenere che questa sia l’unica ragione. In realtà è presente in Israele un atteggiamento negativo nei confronti dell’omosessualità in quanto tale; anche se si tratta di un atteggiamento largamente dipendente dalla cultura del tempo, e dunque da non assumere come un assoluto.

E il Nuovo Testamento quale messaggio contiene a tale riguardo?

Il  silenzio  del  Nuovo  Testamento  è  ancora  più  radicale  ed  eloquente.  Non  si  parla  mai di omosessualità nei Sinottici, che contengono, in maniera più diretta, il messaggio di Gesú. Il solo a parlarne, se si fa eccezione per Atti, 15, 28-29 (la cui interpretazione è peraltro controversa), è Paolo, soprattutto nel primo capitolo della lettera ai Romani (vv. 18-32), dove il comportamento omosessuale (in questo caso tanto maschile che femminile) viene visto come espressione di uno stravolgimento dell’ordine della creazione conseguenza dello stato di peccato in cui l’umanità ècaduta. Qui dunque l’omosessualità più che una colpa è una punizione e una disgrazia, segno della condizione  di  miseria  che  l’uomo  sperimenta  e  dalla  quale  attende  di essere  liberato  grazie all’intervento redentivo di Cristo.

Appare pertanto chiaro che i testi della rivelazione non contengono, se non indirettamente, condanna dell’omosessualità,  la  quale  peraltro  è  accostata  con  strumenti  ancora  largamente imperfetti, che forniscono di essa conoscenze imprecise e parziali, spesso anche devianti. Per tutte queste ragioni è difficile trarre dalla Bibbia (Nuovo Testamento incluso) elementi di valutazione etica di un fenomeno come quello omosessuale, che esige per essere correttamente giudicato, una più precisa conoscenza delle dinamiche specifiche che lo qualificano.

Tuttavia, la tradizione ecclesiale successiva — da quella patristica a quella medioevale — non solo non ha modificato, ma sembra avere persino accentuato il giudizio negativo. Quali, secondo te, le ragioni?

È vero. Il giudizio espresso dalla chiesa, fin dai primi secoli, a proposito della omosessualità è un giudizio  radicalmente  negativo.  A  determinarlo  hanno  concorso,  da  un  lato,  il graduale restringimento  a  un’interpretazione  unicamente  sessuale  del  racconto  di dall’altro, l’assunzione dalla lettera ai Romani di Paolo dell’idea di  contro natura  che l’apostolo usa per definire — come già si è accennato — il ribaltamento della realtà provocato dal peccato. Ma un

contributo importante all’affermarsi di questa concezione va assegnato anche all’influsso di correnti

di  pensiero  esterne,  quali  lo  stoicismo  e  il  neoplatonismo,  lo  gnosticismo  e  il  manicheismo,

soprattutto per l’antropologia dualista a cui si ispirano.

La teologia medioevale fa propria questa prospettiva negativa, che verrà successivamente ripresa

dalla manualistica moderna. L’asse attorno a cui il giudizio morale ruota è il concetto di  contro

natura  che, diversamente da quanto molti pensano, non designa tanto il mancato rispetto dello

statuto  bisessuato  dell’umano,  quanto  l’impossibilità  che  l’atto  sessuale  sia  orientato  alla

procreazione, finalità alla quale è intrinsecamente ordinato. Si fa strada, in questo contesto, la

distinzione tra l’inclinazione omosessuale che, pur essendo considerata disordinata, non è tuttavia

giudicata colpevole, e l’atto omosessuale, che è invece giudicato gravemente peccaminoso.

Il Vaticano II non ha contribuito al superamento di questa concezione? La lettura più positiva dell sessualità presente nei documenti conciliari, in particolare nella Gaudium et spes, non ha concorso a cambiare anche il modo di atteggiarsi nei confronti dell’omosessualità?

Va detto anzitutto che il Concilio non parla dell’omosessualità. È vero tuttavia che in esso sono contenute  indicazioni  preziose  per  una  rivalutazione  della  sessualità,  in  particolare  per il superamento della visione tabuistica e repressiva, che è stata a lungo prevalente nella precedente tradizione ecclesiale.

Qualche timido tentativo di ripensare la questione omosessuale è avvenuto nel postconcilio: per esempio un importante documento del 1976 della Congregazione della dottrina della fede dal titolo Persona  umana.  Alcune  questioni  di  etica  sessuale  riconosce  l’esistenza  di  una  forma di omosessualità come stato permanente della persona (dunque come fatto strutturale, vero e proprio modo di essere-al-mondo) e afferma che, in tal caso, anche gli atti vanno giudicati «con cautela».

Ma, in seguito, l’atteggiamento negativo è tornato ad avere sopravvento, persino con un certo (sospetto) accanimento.

Quali a tuo avviso i motivi di questa lettura del tutto negativa? E come è possibile superarla?

Credo che la motivazione di fondo del rifiuto dell’omosessualità vada ricercata nell’adozione di un approccio ispirato a un paradigma naturalistico. Non si usa più certo l’espressione contro natura, ma  rimane  invariata  la  sostanza.  L’omosessualità  è  considerata  un  fenomeno  che contraddice l’ordine originario della creazione che ha la sua radice nella bisessualità, la quale è, a sua volta, finalizzata  alla  propagazione  della  specie  umana.  Se  si  vuole  uscire  dall’impasse  e restituire significato  vero  anche  al  rapporto  omosessuale,  occorre  allora  abbandonare  tale paradigma e sostituirlo con un paradigma relazionale, che conferisce il primato all’autenticità della relazione.

Questo significa che la valutazione del comportamento omosessuale (come del resto di quello eterosessuale) deve porre in primo piano l’attenzione al livello di relazionalità raggiunto. Come dire che la bontà (o la malizia) morale di tale comportamento va commisurata alla capacità che esso ha di realizzare una vera interpersonalità, la quale si verifica soltanto nella misura in cui si riconosce l’altro come soggetto nella sua assoluta dignità e si instaura con lui un rapporto di amore. La differenza da persona a persona, che si sviluppa a diversi livelli e che definisce il soggetto umano nella sua unicità, rende ragione della fecondità che può caratterizzare anche la relazione tra soggetti dello stesso sesso, le cui potenzialità soggettive vanno ben oltre le modalità di strutturazione oggettiva dei rapporti. Primato della persona sulla  natura  e primato della relazione sulle forme concrete  nelle  quali  si  incarna  conferiscono  pertanto  dignità  al  rapporto omosessuale,  che costituisce,  quando  è  vissuto  autenticamente,  una  modalità  umanamente significativa  di comunicazione e di comunione interpersonale.

Se  ci  si  pone  in  questa  prospettiva,  facendo  proprio  il  paradigma  relazionale,  perché no ammettere allora anche l’esistenza di diritti e la necessità di un loro pubblico riconosciment attraverso la legge?

Certo. Il riconoscimento dei diritti alla coppia omosessuale da parte della legislazione civile è assolutamente doveroso. Le vie praticabili sono quella del matrimonio — nei confronti del quale nutro personalmente qualche dubbio soprattutto per il significato che tale istituto ha sempre avuto in tutte le culture, quello cioè di formalizzare il rapporto uomo-donna e di creare le condizioni per l’esercizio della funzione procreativa — e quella di appositi patti — si pensi ai Pacs francesi — che garantiscono alle persone stabilmente conviventi (etero e omosessuali) alcuni fondamentali diritti in tema di assistenza, di previdenza, di sgravi fiscali, ecc.

La  plausibilità  di  questi  dispositivi  ha  la  sua  giustificazione  sul  piano  morale  nel  fatto che l’instaurare relazioni interpersonali e il prendersi cura dell’altro, oltre a costituire una importante forma di responsabilità personale, concorre, in misura determinante, anche alla promozione della vita sociale. L’intervento della legge a fornire norme che garantiscano all’unione omosessuale una maggiore solidità mediante la definizione di diritti e doveri reciproci, è perciò un atto indubbio di civiltà.

Giovanni Fioravanti

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