La lettera del pastore Francesco, Fratelli tutti, è indirizzata all’insieme degli uomini di buona volontà, impegnati a perseguire il bene comune. Come se gli uomini di buona volontà mancassero e da tempo non avessero improntato la loro vita a lottare per il conseguimento di quegli ideali e di quella giustizia sociale di cui scrive.
Le donne e gli uomini di buona volontà non hanno bisogno né del Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb né di Dio per considerare «…gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità…» (FT. 5), tanto meno per praticare la fratellanza.
È stato scritto il 10 dicembre del 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha approvato e proclamato la Dichiarazione dei Diritti Umani e che all’articolo 1 sancisce che “gli esseri umani […] devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
La fratellanza è una legge universale dell’umanità tanto da accompagnarsi tre secoli fa alla libertà e all’uguaglianza nella lotta di emancipazione del popolo francese dal potere della aristocrazia e del clero. Una lotta nata dalla forza della ragione contro l’oscurantismo della religione. Una lotta che da allora non ha cessato d’essere combattuta e che certo non può essere condotta con amore, meno che mai con tenerezza e gentilezza. Neppure il Nazzareno è stato tenero e gentile né con i farisei né con i mercanti nel tempio.
Non è chiaro se il no alla “cultura dello scontro”, sì alla “cultura dell’incontro” scritto da Francesco (FT. 30) sia più un auspicio che una condizione realisticamente praticabile.
Un ideale sul quale non c’è nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci, come scrive Nietzsche a proposito dell’uomo del ressentiment, guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «Con loro non ce l’abbiamo affatto, noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo: nulla è più saporito di un tenero agnello.»
Gli fa eco Herman Hesse in Il lupo della steppa: «Oh come voglio bene ai caprioli!/ Poterne trovar uno, o bella cosa!/ Vi affonderei la bocca mia bramosa:/ non v’è nulla che tanto mi consoli.»
La questione sarebbe dovuta alla “fragilità umana” che la tradizione cristiana, ci informa Francesco, chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. (FT. 166)
È che a essere fragile non è chi esercita il sopruso, ma chi lo subisce. Questa forma di concupiscenza non c’è Dio che la possa curare o possa aiutare a “dominare” (ibidem), come la storia si è preoccupata di dimostrare.
Nel secolo dell’Olocausto, di due conflitti mondiali, di Hiroshima e Nagasaki la “concupiscenza” di Francesco avrebbe fatto rabbrividire.
D’altra parte il Francesco di Fratelli tutti, non pare essere neppure il Francesco della Perfetta letizia, spiegata a frate Leone: «fra tutte le grazie dello Spirito Santo e doni che Dio concede ai suoi fedeli, c’è quella di superarsi proprio per l’amore di Dio per subire ingiustizie, disagi e dolori».
No, il Francesco papa scrive: «Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama». (FT. 241)
Ciò che non è chiaro nell’enciclica del papa è dove inizia e dove finisce il Magistero della Chiesa. Dove iniziano e dove finiscono le opinioni di Francesco.
Forse Fratelli tutti piace al mondo laico proprio per questo, perché apparentemente, con spregiudicatezza gesuitica, contiene poco della Chiesa Cattolica, per lasciare spazio al ritorno a quel cristianesimo evangelico che ha ispirato il socialismo utopico. L’analisi socio-antropologica che Francesco ci narra è tutta attraversata dall’utopia socialista e da un afflato filantropico nei confronti delle ingiustizie sociali, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Di filantropismo gronda l’appello finale: “In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante”. (FT. 285)
Resta un interrogativo su come uomini e donne di buona volontà possano camminare, non uno a fianco all’altro, ma insieme, se non si riconosce dignità alla persona umana se non creata da Dio: «Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio». (FT. 124)
Non sembra una premessa che abbia l’umiltà di aprirsi al “dialogo e alla amicizia sociale”. Il dialogo sociale verso una nuova cultura che propone Francesco postula il dialogo tra le religioni ma non quello sulle religioni.
«Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». (FT.199). Perché da questo puntiglioso elenco delle culture spicca per la sua assenza la cultura religiosa?
Il perché è contenuto nei paragrafi dedicati al “Fondamento ultimo”, dove dopo aver predicato fratellanza, gentilezza e tenerezza, con altrettanta fratellanza, gentilezza e tenerezza non si riconosce pari dignità alla cultura laica e alla ragione.
«Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Infine citando le parole di Benedetto XVI: «La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità». (FT. 272)
La “fratellanza” della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è la “fraternità” della Chiesa che ha Dio dalla sua parte.
Inquieta pensare, e fa dubitare dell’autenticità della ricerca della fratellanza, che: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini». (FT. 274)
Il linguaggio di Francesco è tutt’altro che lineare. Da un lato scrive: «Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione». (FT. 276)
Mentre dall’altro, nel paragrafo precedente, si lascia andare ad espressioni che sanno di oscurantismo: «Va riconosciuto come tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano […] l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti. Non è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce soltanto i potenti e gli scienziati. […] I testi religiosi classici […] di fatto vengono disprezzati per la ristrettezza di visione dei razionalismi. (FT. 275)
Potenti, scienziati e razionalismi posti sullo stesso piano, accomunati per la loro ostilità alla trascendenza.
Preoccupa la rappresentazione sociale che Francesco fa dei cristiani, ai quali se nelle viscere smettesse di vibrare “la musica del Vangelo”: «…avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna». (FT. 277).
La comune appartenenza al genere umano non riesce ad essere una ragione sufficiente.
Avremmo voluto che la “fratellanza” di Francesco fosse gratuita, non avesse bisogno del suo dio per essere giustificata e donata.
Anche il cattolicesimo, che si era sperduto tra i meandri delle analisi sociologiche, recupera il posto che gli spetta nella preghiera finale, in quella preghiera cristiana che Francesco propone come ecumenica, ma che ecumenica non è perché esordisce con “Dio nostro, Trinità d’amore”, quando è proprio il dogma della Trinità ad essere divisivo, ad ostacolare il cammino verso l’ecumenismo, a dividere i cattolici dagli ebrei e dai musulmani.
Ma è il mestiere della Chiesa la liturgia della parola, predicare la buona novella dell’angelo messaggero. È questo il ministero universalistico del suo corpo mistico, non immune dalle tentazioni e dalle cadute secolari.
Del resto sant’Agostino si è premurato, nel “Discorso sui pastori”, di citare il vangelo di Matteo: “Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno” (cfr. Mt. 23,3).
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