Il rituale incontro fra governo italiano e gerarchie ecclesiastiche, vaticana e italiana, in occasione della ricorrenza della firma degli Accordi di Villa Madama offre l’occasione per riflettere sul regime concordatario in vigore nel nostro Paese, sulle sue premesse e conseguenze.
È certo che, all’indomani della fine della prima guerra mondiale che aveva cancellato l’Europa nella quale era nata la Questione romana, anche un governo liberale avrebbe trovato prima o poi un compromesso per risolverla, dato che si trascinava da oltre mezzo secolo È però un dato di fatto che i Patti lateranensi del 1929, che hanno dato vita al regime concordatario, sono stati siglati da Mussolini, un fascista nato socialista. Con la nascita della Repubblica la sua costituzionalizzazione – non dei Patti in quanto tali – è stata favorita da Togliatti, un politico di cultura marxista, mentre la revisione del Concordato, che i politici democristiani per quasi un ventennio non avevano concesso, è stata firmata da Craxi, un altro socialista. Mussolini, Togliatti e Craxi, pur così diversi fra loro, non erano cattolici: hanno concesso privilegi alla Chiesa con l’intento di servirsi della Chiesa. Questa, a sua volta, con la sua gerarchia ha agevolato i loro piani accettandone il favore.
Il regime concordatario è il frutto di questo accordo fra soggetti in conflitto fra loro, ma pronti al compromesso per consolidare il loro potere.
Mentre frequenti sono le denunce sul costo per lo Stato di tale operazione, si riflette poco sulle sue conseguenze sulla vita interna della Chiesa.
Il regime che ne deriva condiziona pesantemente la vita interna della comunità ecclesiale, particolarmente nei rapporti fra gerarchia e fedeli. Ancora più pesante appare oggi tale condizionamento perché ostacola l’attuazione della profonda innovazione introdotta dal Concilio Vaticano II, che li vuole ugualmente partecipi, seppure con funzioni diverse, del Popolo di Dio.
Consente, infatti, alla gerarchia di sentirsi svincolata dalla ricerca del consenso dei fedeli, grazie allo status di interlocutore ufficiale del governo e delle forze politiche, garantito da un patto con valore internazionale e, al tempo stesso, di non aver bisogno del loro sostegno economico, sostituito dal finanziamento pubblico.
Ne deriva una burocratizzazione dei rapporti intraecclesiali che inquina lo spirito comunitario, favorendo ritualismo e formalismo. La stessa opera di evangelizzazione ne è compromessa; ridotta a indottrinamento è inaridita nella sua valenza profetica perché utilizza anche l’ora di religione nelle scuole pubbliche pagata dallo stato e gli spazi privilegiati in televisione concessi dai governi “amici”.
Vescovi e cardinali sono chiamati a presenziare a cerimonie istituzionali come “autorità religiosa” a fianco di quelle politiche e militari.
A tal proposito i sacerdoti impegnati nell’assistenza ai soldati sono inseriti con diversi gradi nella burocrazia militare. Proprio contro questa contraddizione, sempre più matura una consapevolezza critica nella comunità ecclesiale. Sabato scorso nel 28° anniversario dalla firma del nuovo concordato …. si è svolto a Roma un sit-in contro i privilegi concordatari e in particolare contro la struttura dei cappellani militari, simbolo anche di una chiesa collusa con i poteri dominanti. Nell’appello che è stato distribuito dai gruppi di cattolici romani che l’hanno organizzato, si legge Nel momento in cui l’Italia attraversa un’aspra crisi economica e sociale e chiama tutti a fare sacrifici e a rinunciare a diritti pur legittimamente acquisiti anche la Chiesa cattolica romana deve fare la sua parte. Riteniamo perciò doveroso che le autorità cattoliche dimostrino la disponibilità a ridiscutere alcuni dei privilegi ottenuti con il nuovo Concordato, stipulato il 18 febbraio 1984, … Sarebbe infatti scandaloso se la gerarchia cattolica non rinunciasse ora ai privilegi concordatari, così come auspicava il Concilio Vaticano II.
Questo appello può sembrare ingenuo, ma, in verità, rappresenta un messaggio di grande attualità poiché costituisce un forte richiamo alla Comunità ecclesiale e a tutta la società civile a rilanciare un ripensamento del regime concordatario, non solo in quanto esso costituisce un disconoscimento della laicità delle istituzioni repubblicane, ma anche uno degli elementi principali della crisi della democrazia nel nostro Paese.
L’esistenza, infatti, della Cei, un soggetto forte riconosciuto come autorità morale, economicamente autosufficiente, capillarmente presente sul territorio e nel mondo dell’associazionismo, non solo interferisce nella dialettica politica in una prospettiva autoreferenziale, ma vi trasferisce anche i contrasti sulla linea da seguire e le ambizioni personali, che negli ultimi anni hanno cominciato ad emergere in modo inequivocabile.
Forse un nuovo impegno per l’abolizione del regime concordatario dovrebbe tornare a pieno titolo nell’agenda politica non solo in nome della laicità, ma per la promozione della democrazia.