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Bagnasco è il bene comune?

Torna Bagnasco, ancora per cinque anni. E subito si fa sentire: la Cei è cosa sua e tutti  devono cantare in coro. Chi devia dallo spartito e  per di più si spende a favore della Cgil e dei lavoratori va subito tacitato. Gongolante, sembra benedire Alfano quando pone gli italiani in alternativa a quel sindacato:  “Attenti a non cedere alla Cgil, noi lavoriamo per tutti gli italiani”. Ostenta tutto l’appoggio della schiera curiale alle politiche Monti-Fornero. Si agita: “Ma come è mai possibile tollerare tutte quelle garanzie spropositate”.  Aggiunge: “Dobbiamo tutelare i giovani”.  Dimentica che quei diritti erano il frutto di anni di lotte sindacali e del naturale evolversi della civiltà. Comunque non c’è problema, per tutti, giovani compresi, ci pensa Marchionne.  Certo di questi tempi bisogna fare di necessità virtù, ma perché cassare proprio mons. Bregantini, mosca bianca, che spende buone parole per quel sindacato tanto vilipeso? È l’unico, il sindacato, che fa il suo mestiere. E quando esercita la sua ragion d’essere non lo fa con limitazioni di spazio e di tempo. Lo fa in ottica intergenerazionale. Le conquiste dei padri saranno quelle dei figli. Conveniamo che padri lavoratori e figli di lavoratori debbano tirare la cinghia, ma, a lume di naso, non sembra che i vertici della Conferenza si spendano tanto per loro o per la ricerca di un minimo di equità, magari nell’invocare una patrimoniale.  Figuriamoci.  Anche se lo si negherà sino in punto di morte, sembra ci si accodi a quella linea di pensiero, quella sì carica di ideologismo isterico, propria dei Sacconi e dei Brunetta, che sull’art. 18 giocano le ultime carte per regolare i conti col sindacato. Si badi bene la lotta all’ultimo sangue, da loro avviata, era già cominciata col Re Sole, quando tutto andava bene e i ristoranti erano pieni. L’intento era isolare la Cgil e i lavoratori e contemporaneamente avviare quel “rinnovamento culturale”, tanto caro alla Curia, che avrebbe portato sulla piazza alla irrisione dei valori della razionalità laica, meglio della razionalità tout court. Altro che bene comune, di cui tanto si vagheggia. Forse lo si è ricercato nell’appoggiare le leggi ad personam? Nell’aver così significato la riforma della giustizia? Nell’essersi allora occupati di questa giustizia, facendo marcire i problemi vitali del lavoro? Sembra formarsi, meglio ricompattarsi, una convergenza ideologica tra chi propone valori non negoziabili e ostenta i simboli della religione civile, ormai inaridita in quanto difesa in ordine al passato e non più resa vitale dalla diretta esperienza di fede, e chi  ostenta l’art.18 in funzione strumentale alla propria battaglia politica. Entrambi subdolamente utilizzano a propri fini  di potere strumenti che invece dovrebbero essere orientati al bene comune. Il cardinal Angelo Sodano in sede di comunità europea ci dà illuminazioni sul “to koinon agathon”. Per Platone e Aristotele si tratta della origine e della finalità dell’azione politica. La dottrina paolina del “corpo mistico di Cristo” introduce il riferimento ad una concezione organica della società. Ma ciò che tutto lega è il sigillo di Dio, la legge eterna della divina provvidenza da cui deriva la famosa legge naturale. Tutte le cose partecipano in qualche modo della legge eterna e tale partecipazione nella creatura razionale è ciò che definisce la legge naturale. Alla luce di questa legge la nostra ragione è in grado di distinguere il bene dal male. Quindi, come dice il catechismo al punto 1952, le espressioni della legge morale derivano a cascata dalla legge eterna, dalla legge naturale, dalla legge rivelata. In coda situa le leggi civili ed ecclesiastiche: queste ultime ispirate alla prima. Come si vede siamo al giusnaturalismo scolastico di S. Tommaso. Ovviamente questa legge orienta verso Dio e nel tradurla nel concreto dell’azione si persegue il bene comune. Poco importa se poi i giusnaturalisti moderni ci diranno che per conseguirlo occorre superare lo stato di natura, fonte di incertezza del diritto, nel contratto sociale, forma di mediazione e conciliazione dei diritti degli individui. Poco importa se Grozio ci dirà che quei diritti sono inalienabili esclusivamente perché razionalmente giusti, senza necessità di ricorso all’imprimatur divino. Si rigetta questa idea contrattualistica e funzionalistica della politica e della ricerca del bene comune. Il ritornello è sempre quello: se non esiste una verità ultima, una legge naturale dentro di noi, nessun meccanismo contrattualistico può funzionare. E’ la legge naturale la stella polare che ci può guidare verso le forme più autentiche ed oggettive di bene comune, quindi di democrazia. Di più, proseguendo con Bagnasco, nella messa per i parlamentari in preparazione alla Pasqua (anche quel benefit, negato a noi comuni mortali), si arriva a dire che la laicità vera è quella che rispetta le verità che “emergono dalla conoscenza naturale sull’uomo”, dalla legge naturale cioè che all’uomo viene trasmessa per infusione. Stupisce che si possa parlare di laicità e di libertà nella trasmissione-infusione di principi orientati all’ordine naturale voluto da Dio, principi dunque “non negoziabili” e non sottoposti al vaglio della “cultura” e del dialogo. Citando Zagrebelsky, l’arroganza della verità esprime sempre un disagio democratico. Tanto più quando lo spazio pubblico è gestito in regime di monopolio. Stupisce che la voce della politica non affermi a chiare lettere che la libertà e la laicità non prevedono “valori non negoziabili”, che hanno validità oggettiva solo per chi li ha abbracciati per fede ed escluderebbero tutti gli altri dal perseguimento del bene comune su questa terra. Stupisce che mentre la teologia si globalizza qui da noi si rimanga ancorati a S. Tommaso e ad una prospettiva di staticità. Nel concetto di natura e di legge naturale tutto è predeterminato, in una idea di perfezione primitiva. La stessa rivelazione diventa una comunicazione definitiva. Al contrario La nuova teologia del pluralismo ci coinvolge tutti in una ricerca che non trova la perfezione in partenza, ma tenta di avvicinarla sulla via del dialogo comune. La natura non è ambito di informazioni definitive, ma il risultato di esperienze vissute nella lunga evoluzione e nelle varie culture. Non si tratta più di legge iscritta nella ragione dell’uomo, ma di indicazione di prospettiva emersa dalle molteplici esperienze. L’etica o la morale, secondo il significato etimologico, non si ricavano più per deduzione di principi, ma per il vissuto, i “costumi” che hanno dietro. Sono il frutto di una cultura, nella quale il principio supremo è il dialogo e non l’imposizione.  Più che nella comunità civile e politica forse le ultime speranze vanno riposte nella teologia, in questa teologia. Ha mostrato infatti che, contrariamente alla religione della verità, la religione del dialogo, della comprensione e dell’amore può fare tutt’uno con la laicità di una piena democrazia.

Giovanni Fioravanti

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