Ho l’impressione di trovarmi sul banco degli imputati quando sfioro la geopolitica mondiale che si sta “chiarendo” nella guerra in Ucraina e mi viene voglia di dire con la mano tesa – su cosa: costituzione vangelo dichiarazione dei diritti umani? – “considero la guerra in Ucraina un’invasione di Putin, con tutte le conseguenze che ciò comporta”.
Ed ora, posso, insieme a tantissime altre persone, cercare di capire un po’ della storia meno recente di una zona che pochi conoscono; permettermi qualche perplessità su come il tutto viene gestito; dichiararmi contro la guerra tout court, perché uccide, distrugge, ruba pane e futuro, fa esplodere le peggiori pulsioni?
Posso rivendicare il diritto alla ricerca e alla difesa di tutto ciò che costruisce la pace anche se questo significa seguire, come ci dicono, strade estranee al buon senso comune, perse tra il fumo di inutili sogni e utopie?
Posso dire che tra Pilato che si lava le mani nel sangue di un innocente e chi collauda nuove armi sull’ultimo – in ordine di tempo – campo di guerra non c’è differenza?
Posso dire che sono tutti uguali coloro che esaltano l’eroismo di un popolo, di un esercito e si servono della morte per rafforzare la base del loro consenso politico-elettorale?
Posso dire che, “dentro” o “fuori” che siano, tutti coloro che fanno fallire ogni tentativo per giungere ad un accordo di pace sono responsabili e dovranno renderne conto alla storia?
La guerra è presente in tutto il percorso storico dell’umanità o, per lo meno, nel racconto che se ne fa, dando l’impressione che il cammino dell’uomo sia sovrapponibile prevalentemente a periodi di violenza ed usurpazione.
Tanti storici prendono poco in considerazione la dimensione antropologica dei vari momenti di guerra-pace in una narrazione che tenga conto delle variabili sociali, riconducendola ad un determinato tempo e ad uno specifico spazio geografico, non soltanto per evitare il rischio di manipolare la memoria e quindi il passato, ma per sottolineare le costanti di difesa della vita, presenti ovunque e sempre, che salvaguardano la continuità e il progresso di popoli e paesi.
La guerra è onnipresente nelle narrazioni orali, tramandate di generazione in generazione, inserite nelle difficoltà, nella morte e sofferenze, ma anche negli aneddoti della quotidianità, negli stratagemmi che contribuiscono a superare emergenze e problemi per difendere e riprendere la vita normale.
I momenti “forti” rimangono scritti nell’immaginario collettivo e se ne conserva più a lungo il ricordo appunto perché “eccezionali”, mentre momenti di esistenza quotidiana spesso suscitano meno interesse, però sono i normali gesti di vita a dare continuità alla Terra e all’umanità e devono essere difesi contro ogni progetto di morte.
Robert Musil, in L’uomo senza qualità, scrive: «La somma collettiva delle fatiche spicciole quotidiane mette in circolo una quantità di energia molto superiore a quella che scaturisce da atti di eroismo».
Generalmente, però, l’uso della storia, orale e scritta, diviene strumento per la conquista/conservazione del potere.
Molti storici sono al suo servizio e si prestano a fornire giustificazioni – o pretesti – con una narrazione del passato che indirizzi l’opinione pubblica o settori sociali verso obiettivi stabiliti per l’interesse di chi comanda. I vari nazionalismi, populismi, razzismi hanno radici nella manipolazione della memoria storica perché non si tiene conto di fatti e processi confermati da fonti verificabili e veritiere, ci si affida a improvvisazioni e strumentalizzazioni secondo le necessità del momento.
Per questo i colloqui di pace troppo spesso sono, da entrambe le parti, preda di provocazioni, escamotages, denunce fuori luogo e silenzi conniventi… si innestano dinamiche che si sa essere motivo di tensione, si rispolverano fatti risalenti a situazioni geopolitiche lontane e oggi ininfluenti ma con una carica emotiva destabilizzante; si assiste a coincidenze inquietanti, c’è un parlare schizofrenico che non tiene conto né di morti né di dolore né di distruzioni ma funzionale ad un sistema che ha bisogno di vittime per affermare la sua forza.
La manipolazione impedisce una conoscenza dei processi storici e, di conseguenza, anche di cosa significhi la difesa della democrazia, della pace, dei diritti – bandiere sventolate per giustificare ogni conflitto – con una esibizione di nemici e capri espiatori utili per chi vuol impedire la coscientizzazione di chi e di cosa mette davvero in pericolo identità e civiltà. Si deve, secondo la convenienza del momento, costruire un nemico per nascondere che i veri nemici sono la guerra e la fame perché all’origine di ogni “male”: per Gino Strada, che ne conosceva bene i terribili effetti, «la guerra è il male assoluto»[ii].
Per denunciare questa deformazione è necessario far emergere la verità dei fatti e far sì che, cominciando dai testi scolastici, ci sia una rappresentazione il più possibile reale del processo storico dell’umanità per evitare percezioni che possono divenire pericolose.
La speranza di un mondo diverso appare lontana, ma proprio nei momenti peggiori deve divenire più forte “l’ottimismo della volontà” per andare oltre gli orizzonti strettamente razionali… le ragioni della vita superano ampiamente le logiche del potere e della sopraffazione ed è essenziale riscoprire, far proprie, difendere, diffondere quelle ragioni.
L’ottimismo, dicono, non è un dovere, lo sono però la responsabilità e il coinvolgimento personali perché l’indifferenza è un lusso che oggi non possiamo permetterci.
Nessuno può sentirsi estraneo, mai e in nessun luogo: ognuno è, in qualche modo, parte sia del problema che della soluzione, e mai si può essere “neutrali” o, peggio, “tirarsene fuori”.
Troppi si disinteressano al divenire di un momento storico, ai percorsi intrapresi, ai processi innestati da dinamiche e logiche di cui non conosciamo né l’esistenza né le conseguenze; attirano la nostra attenzione soltanto fenomeni o eventi eccezionali.
Uno tsunami inchioda davanti al televisore, ma si riserva ben poca attenzione agli allarmi che da anni vengono espressi per la situazione della natura che sempre meno potrà offrirci quanto finora ci da dato.
L’invasione dell’Ucraina ha una copertura incalzante, i bambini che piangono, il pupazzetto insanguinato, le piccole bare suscitano giustamente partecipazione e reazioni di orrore e condanna… non fece invece grande effetto il mezzo milione di bambini iracheni morti – un inevitabile effetto collaterale, fu detto, che “valeva la pena” per raggiungere l’obiettivo – a causa delle sanzioni americane e alleati. Certo, furono morti “incruente”, e le scarse, spesso false, notizie erano l’acqua di coltura della nostra indifferenza.
Ora tutto si legge alla luce dei razzi di morte che solcano il cielo ucraino.
L’aumento del prezzo di gas e corrente elettrica non risale a febbraio 2022, era stabilito già da mesi, i governi di mezzo mondo da tempo progettavano misure per farvi fronte per non penalizzare gli strati sociali più fragili (senza naturalmente rinunciare ad aumentare le spese militari, ancor prima della guerra) … però oggi è un altro delitto imputato soltanto a Putin.
C’è una bellissima gara ad accogliere i profughi ucraini, anche nelle proprie case, e sebbene i numeri siano alti, non si parla di “invasione” che distruggerà la nostra “civiltà” … – i soliti rifugiati di serie A e B – e il fenomeno “profughi” non è iniziato nel febbraio 2022: il numero di persone costrette a fuggire da conflitti, violenze, fame, violazioni dei diritti umani, persecuzioni ha superato la soglia dei 100 milioni: quasi l’1% della popolazione mondiale è in fuga.
Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati – UNHCR – denuncia:
«Cento milioni di persone sono una cifra impressionante che fa riflettere e allarma in egual misura. È un record che non avrebbe mai dovuto essere raggiunto. Questo dato deve servire da campanello d’allarme per risolvere e prevenire conflitti devastanti, porre fine alle persecuzioni e affrontare le cause che costringono persone innocenti a fuggire dalle loro case». La solidarietà è indispensabile per tutte le emergenze ma «in definitiva, gli aiuti umanitari sono un palliativo, non una cura. Per invertire questa tendenza, l’unica risposta è la pace e la stabilità, in modo che persone innocenti non siano costrette a scegliere tra un pericolo estremo in patria o una precaria fuga ed esilio».
La crisi alimentare che sta colpendo tantissimi paesi, soprattutto i più fragili, è senz’altro conseguenza anche di questa guerra. Oggi tutti inorridiscono ma dimentichiamo quanto siano state irrise, come inutili don Chisciotte, le grandi organizzazioni mondiali di piccoli e medi contadini che, da decenni, mettono in guardia sul pericolo rappresentato dalle multinazionali agroalimentari e sulla necessità di una sovranità alimentare di ogni paese per evitare carenze legate a vari fattori – prima fra tutti la guerra -, speculazioni e ricatti da parte dei paesi produttori: oggi, come in passato, la fame è un’arma di guerra[iv].
Ma, si sa, la rana gettata in un recipiente d’acqua bollente, esce fuori con un balzo e si salva, la rana messa nell’acqua fredda, quando si accende il fuoco, nuota tranquilla finché morirà bollita perché si accorgerà troppo tardi del pericolo.
È storia di oggi: se ci gettassero “nell’acqua bollente” ce ne renderemmo conto e ci salveremmo, ma immersi “nell’acqua fredda” non ci accorgiamo di “morire” poco a poco via via che l’acqua si riscalda e quando ce ne rendiamo conto è pressoché impossibile trovare una via d’uscita.
Il sistema attuale ci mette in una condizione che appare innocua, addirittura sicura, in una situazione “liquida” in cui perdiamo punti di riferimento, capacità di discernere e, di conseguenza, di scegliere e denunciare.
È il “liquido” che coltiva il non-pensiero e il conformismo, su cui radica l’indifferenza, nessuna traccia di logica critica nell’interpretare il mondo, nessun sguardo oltre la porta di casa, con l’illusione di essere nel “bene” (per noi!) anche se questo nostro apparente bene aggrava il “male” in cui viviamo, senza che ci scalfisca il negativo che ci circonda.
Improvvisamente (un “improvviso” coltivato da tempo all’ombra della nostra indifferenza ed egoismo) scoppia qualcosa che ci coinvolge direttamente… la reazione non può essere che schierarsi senza distinguo – non ne siamo più capaci – senza un tentativo personale di capire, informarsi, selezionare… e continuiamo la strada a cui siamo abituati: la voce del sistema… e si muore lentamente, “bolliti” in acqua/fuoco sapientemente dosati per renderci conniventi con idee che il semplice buon senso ci dovrebbe far condannare, che ci dovrebbero far scendere in piazza all’unanimità invece di applaudire “logiche” irrazionali e pericolose, espressione di quel “male” che abbiamo escluso dalla nostra vita, che affermiamo di voler combattere… e lasciamo che venga messo in pericolo il futuro nostro e del mondo.
Noi siamo “i buoni”, siamo dalla parte del “bene” e le “nostre” scelte e idee sono quelle giuste e tutti devono seguirle.
Se i “buoni” uccidessero tutti i “cattivi”, cosa succederebbe? e poi chi giudica chi sia “buono” o “cattivo”? Molti “buoni” nella storia sono poi divenuti i “cattivi” agli occhi dello stesso potere, e viceversa, – Bin Laden, Gheddafi, Iran, Libia, Iraq, Talebani, Saddam Hussein, lo stesso Putin e tantissimi altri -. I “cattivi” uccisi non resusciteranno con la loro eventuale riabilitazione e sarà imbarazzante metterli faccia a faccia “nell’aldilà” con i “buoni” che li hanno giustiziati!
Si chiede a gran voce l’invio di armi come mezzo per difendere la democrazia, per vincere l’invasore, per farla pagare al responsabile del “male” … la sua è una guerra criminale, la difesa è una guerra giusta, sacrosanta con l’unico obiettivo di salvaguardare il “bene”; è inutile la via diplomatica dobbiamo piegare, sconfiggere, umiliare con ogni mezzo chi ha iniziato!
Giusta la condanna dell’invasione e di chi l’ha imposta per i propri giochi di potere… ma non sono giochi di potere anche le prese di posizioni totalitarie e assolutiste? Tutta questa sbandierata purezza di intenzioni, poi, non ha garanzie sicure.
«Il 29 aprile, l’economista Tonino Perna sul Manifesto ci ricordava che le armi non si sottraggono alla regola madre dell’economia, ovvero quella della domanda e dell’offerta. La guerra in corso in Ucraina, per gli industriali delle armi è “‘una gara di Formula1’ – scrive – in tutto il mondo gli occhi degli esperti (ministri della Difesa, generali, mercanti d’armi…) guardano attentamente a questa sfida militare per valutare la forza reale dei nuovi sistemi d’arma, le innovazioni tecnologiche apportate, al fine di stabilire possibili acquisti nel prossimo futuro”. Vi sembrerà cinico ma è così! Persino parte delle armi “generosamente” offerte all’esercito ucraino da Usa e compagnia (anche noi!) hanno anche questo scopo. “Pertanto, la guerra in Ucraina rappresenta un’autentica fiera delle armi, molto più remunerativa, sul piano delle vendite, delle tradizionali fiere che si svolgono nei padiglioni ovattati delle grandi città, come quella, famosa, di Parigi a metà giugno. Nuove armi, infatti, per essere vendute devono dimostrare la loro efficacia sul terreno. A differenza di tante altre merci dove sono i consumatori che con il passaparola creano un giudizio positivo o negativo sulle novità introdotte, dove sono gli imprenditori, per le macchine utensili, che prima di acquistarle vogliono vederle all’opera, per i sistemi d’arma sono le guerre il solo test che dà un giudizio definitivo sul valore delle novità introdotte”»[v].
Chissà se “i consumatori” delle nuove armi che muoiono per dimostrarne l’efficienza siano poi così convinti del loro ruolo!
Prima o poi emerge sempre qualche verità scomoda, che può mettere in difficoltà il “Pensiero Unico Bellicista”, ma questo quasi sempre dopo… intanto un ampio settore della cosiddetta opinione pubblica è “bollita” e non sa far altro che seguire la voce di chi grida di più, di chi mira all’efficienza e non alle stupidaggini di chi sventola le bandiere della pace o pensa che sia un segno di distensione far portare una croce da due donne “nemiche”!
Lyudimila Denisova, commissaria ucraina per i diritti umani, è stata sospesa dall’incarico, accusata – dal suo governo – di gonfiare fatti di crimini di guerra, soprattutto stupri, senza fonti verificabili. La quasi-verità non desta particolare stupore, ne sono piene le narrazioni delle guerre per colpire l’immaginario collettivo contro il “nemico” del momento.
Quali altri “fatti” verranno alla luce nei prossimi anni su tutte le guerre di oggi e di ieri? Cosa siamo disposti a tollerare? Fino a quando accetteremo che il fine giustifica i mezzi?
Cofer Black, unità antiterrorismo CIA, dopo l’11 settembre affermò: “C’è stato un prima e un dopo: dopo ci siamo tolti i guanti”, infatti nella guerra umanitaria del 2004 in Iraq ci fu la vergogna del centro di tortura statunitense di Abu Ghraib, all’entrata un cartello: “l’America è amica del popolo iracheno” … e per Bush le “torture” perpetrate ad Abu Ghraib sotto il regime di Saddam Hussein scendono a “condotte vergognose” nel comportamento dei soldati USA.
Le non-verità prima o poi affiorano, anche se troppo tardi per evitare sangue, morte, dolore.
Joseph Pulitzer scrisse:
«Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non viva della sua segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri».
Intanto si continua ad essere martellati da immagini atroci che raggiungono lo scopo di tener vivo l’odio per il “demonio” e si applaude a dichiarazioni e prese di posizione, ad alto livello, che dimostrano quanto sia lontana ogni intenzione di giungere ad una trattativa per la fine del conflitto.
La percezione della guerra è strettamente legata al racconto che se ne fa, all’uso mediatico delle immagini.
Nella guerra in Iraq, il primo conflitto trasmesso in diretta televisiva, furono centinaia di migliaia i morti, eppure molti osservatori fanno notare che solo in pochissimi casi si vedono i loro corpi perché gli invasori erano i “buoni”, eravamo “noi”: di fronte ad un’opinione pubblica non ancora “bollita” era controproducente far vedere troppo la morte perché gli obiettivi “giusti” non fossero oscurati da un’informazione veritiera ma fuorviante se non intesa bene. Nel tempo, le ragioni degli oppositori all’intervento risultarono più fondate di quelle dei guerrafondai… la distruzione dell’intero apparato statale aprì la strada ad un’infinita guerra civile in quasi tutto il paese, un impoverimento generalizzato della popolazione, la scomparsa di gran parte del patrimonio culturale, la radicalizzazione di posizioni integraliste e fanatiche.
Né si seppe molto, in seguito all’uccisione di alcuni mercenari dell’esercito USA, della strage di Falluja, la “città dalle cento moschee”, conosciuta in tutto il mondo per la sua ricchezza culturale, distrutta dall’offensiva americana del 2004; migliaia le vittime civili bruciate dalle armi al napalm e al fosforo bianco, proibite dalle convenzioni internazionali, con enormi tragiche conseguenze, un debito storico che sarà impossibile risarcire.
Dopo le Torri Gemelle, la guerra viene presentata sempre più come scelta obbligatoria (Bush scomoderà addirittura dio!), come unica alternativa contro il male assoluto rappresentato dal terrorismo.
Si vuol far perdere alla guerra la sua immagine di violenza e immoralità, le viene costruito intorno un alone rassicurante, presentata come un duello tra bene e male che va al di là del conflitto per i confini, per le materie prime, per interessi geopolitici… quasi una “guerra santa” come impegno morale contro un nemico che minaccia tutto il mondo. Di fronte a questo pericolo le forze “libere e democratiche” non possono che unirsi – tutte – se non si vuol essere complici e divenire corresponsabili della distruzione della “civiltà” (occidentale, ovviamente, altre culture non contano).
Allora si mescolano complicità e alleanze che vanno contro la storia e contro l’identità di vaste zone: America ed Europa hanno percezioni e interessi diversi, una visione e una collocazione geopolitica differenti ma l’Europa rischia di appiattirsi sugli interessi statunitensi invece di ricoprire un ruolo di equilibrio tra blocchi contrapposti.
Viene, di fatto, messo in discussione lo stesso concetto di nazione, di Stato; la guerra oggi riassume tutte le modalità: dai droni alle trincee, dai porti minati ai combattimenti casa per casa, dalla guerra di liberazione allo scontro – per procura – tra potenze mondiali, dai lunghi assedi ai missili, dai giochi dei servizi segreti alla guerra dell’informazione…
Il conflitto Ucraina-Russia suscita forte interesse mediatico e, di conseguenza, emotivo ma dietro a tutto si nascondono obiettivi che vanno oltre gli interessi della gente: la costruzione di un nuovo ordine internazionale e una redistribuzione delle zone d’influenza sia da parte dell’“Occidente” che della Russia[vi].
La guerra ha dinamiche vaste e cause profonde; dietro ad ognuna ci sono lotte di potere che la generano e la fanno esplodere. In un intreccio di tattica-strategia vengono nascosti i moventi e si esalta il divenire storico come un processo naturale inevitabile, da accettare senza dubbi e perché.
Questo schierarsi incondizionato per “difendere” è alla base di una strategia che si aggiorna con il tempo ma che fondamentalmente non cambia gli equilibri di potere, anzi, li conferma senza una reale volontà di soluzioni differenti, di rottura con un difficile passato.
I rapporti tra paesi non si basano sull’uguaglianza di decisione, sul riconoscimento dell’autonomia reciproca ma su una situazione in cui c’è chi scrive il copione e chi lo interpreta senza possibilità di significative modifiche.
I rapporti disuguali di potere si esprimono in mille modi e si servono di tanti mezzi diversi… e non solo le disuguaglianze socio-economiche e politiche, ma anche la costruzione di un’opinione pubblica basata su nazionalismo, razzismo, omofobia, autoritarismo, fanatismi di ogni tipo, le relazioni che passano sotto il nome di patriarcato…
Marc Bloch nel 1921, in Riflessioni sulle false notizie della guerra, sottolinea come gli stati d’animo personali/collettivi trasformano la percezione in mito, creando un ambiente favorevole alla diffusione di notizie false, manipolate, utili per propagare letture distorte e suscitare nella società le risposte “adeguate”.
Le reazioni emotive, nate da una certa lettura e presentazione dei fatti, non aiutano il pensiero critico, non stimolano la ricerca di una “verità” più completa. Si dà per scontato tutto ciò che ci dicono e ci fanno vedere; incapaci di prendere un po’ di distanza, si finisce per divenire “esecutori” di stimoli estranei al bene comune.
Nella logica della guerra, la persona umana è un mezzo per i giochi di potere e non il fine di un progetto che codifica il tempo per la vita della natura e dell’umanità, come emancipazione verso forme di realizzazione e di perfezionamento dell’esistenza personale e comune.
La guerra viene giustificata con la necessità di mettere fine a situazioni ingiuste, per portare democrazia e diritti, come ritorsione contro un’ingiustizia subita… spesso chi la inizia si presenta come “vittima” (o paladino di una vittima) di torti prolungati nel tempo. Essere “vittima” dà alla guerra una “giustificazione etica” che non è sempre facile trovare.
Le alleanze politico-economiche tra varie nazioni dilatano i problemi, quasi mai li risolvono, mettono in moto meccanismi di aiuto/difesa che spesso peggiorano la situazione di paesi divenuti campi di battaglia di interessi che superano i loro confini.
C’è poi da neutralizzare una “guerra psicologica” che crea un’aggressività dilagante ed apre la strada a situazioni rischiose. È necessaria una diversa impostazione dell’educazione in famiglia, nella scuola, nella società per introdurre una nuova cultura e visione del mondo, nuove idee e prassi sociali.
La guerra psicologica serve a creare paura, preoccupazione, odio, sete di vendetta contro il “male” incarnato da una persona, da un intero paese; lo scontro dal “teatro di guerra” si allarga all’opinione pubblica con l’obiettivo di giungere all’uniformità perché se si incrina il fronte, tra le fessure della razionalità si potrebbero innestare interpretazioni pericolose per i poteri coinvolti dai due lati dello schieramento.
Nell’immaginario collettivo si diffonde una banalizzazione della guerra attraverso molte forme e parole, vedi le “missioni di pace”, gli “interventi umanitari”, dove la guerra viene associata all’impegno di chi salva vite umane, invece di uccidere, un imperativo di onore, di bene, di valori da salvaguardare o diffondere.
I bambini giocano spesso “alla guerra” perché è questo che fanno i grandi, per loro è un gioco, un’avventura: però «tu fai “pum” e ridi; il soldato spara e un altro uomo non ride più. È la guerra» (Bertold Brecht). In passato, c’erano i soldatini di piombo, nati forse con l’intenzione di stemperare ricordi ed esperienze vissute in tempi di guerra, poi per esorcizzarla attraverso la morte “per finta”; oggi in tanti videogiochi si vince con l’annientamento del “cattivo”, del “nemico” … e la situazione virtuale può finire per confondere la percezione di ciò che è reale e rendere “normali” comportamenti violenti.
La banalità della guerra è dimostrata dalla parata militare del 2 giugno, un giorno che segna un “prima” – dittatura, guerra, violenza, invasione, razzismo, ingiustizia – e un “dopo” – pace, democrazia, dignità, libertà, giustizia -: perché, allora, per “festeggiare” si ricorre a strumenti di morte e non a ciò che distingue un paese “in pace” e “per la pace”? Il 2 giugno si votò anche per l’Assemblea Costituente che seppe dar vita ad una Costituzione, ritenuta una delle migliori al mondo, che ripudia la guerra tra i principali obiettivi della nuova Italia, uscita dalla resistenza.
Cosa dire della partenza delle Mille Miglia inaugurata dal volo su Brescia di una formazione di Tornado di stanza all’aeroporto militare di Ghedi? Anche le Frecce Tricolori dovrebbero suscitare perplessità, ma i Tornado!!! non aerei da ricognizione (e anche questi sarebbero stati fuori luogo), ma caccia-bombardieri supersonici. Già grave che nel 2019 il percorso delle Mille Miglia passasse per la base militare di Ghedi, ed ora la conferma della crescente militarizzazione della società anche in competizioni nate per unire in sfide “pacifiche”, i cui confini sono lontanissimi da ogni logica militare.
Un’ulteriore tappa nella banalizzazione della guerra: si aprono scenari inquietanti su percorsi culturali, storici, di costume che sempre più perdono la loro ragion d’essere e divengono un’ulteriore pedina per confondere l’opinione pubblica e abituarla a non percepire il pericolo del futuro verso cui siamo incamminati.
Banalizzando la guerra, se ne indebolisce la carica di orrore e di morte, si trasforma in qualcosa quasi di ovvio, di inevitabile dando però l’idea che sia controllabile, che sia possibile guidarla, gestirla, interromperla quando si vuole.
La spettacolarizzazione della guerra non favorisce una crescita morale, la ripetizione ossessiva di immagini può portare all’assuefazione e, invece di spingerci ad agire, rischia di renderci spettatori passivi, crea un comodo senso d’impotenza che non spinge ad allargare il proprio orizzonte.
Così ci si “abitua” a situazioni che, se non creare incubi, dovrebbero almeno farci risvegliare dal sonno che scatena i mostri dell’ignoranza, dell’egoismo, dell’odio, dell’indifferenza:
«Da cosa è stato suicidato Mohamed Mahmoud Abdel Aziz? Dal nostro razzismo strisciante o dalla nostra indifferenza? Dalla crudeltà dei lager libici camuffati da centri di accoglienza o dal sistema globale che produce i profughi dalla pelle nera? Aveva 19 anni e ha deciso di porre fine ai suoi giorni quando ha capito che le torture subite ad Ain Zara in Libia erano condizione peggiore di quello che si era lasciato alle spalle in Darfur (Sudan). Come gli ucraini scappava dalla guerra, come gli ucraini, con l’anima piagata, mendicava solidarietà. Nell’editoriale su Avvenire si fa notare che “Tripoli dista 1.000 chilometri esatti da Roma. Kiev quasi 1.800. All’Ucraina l’Italia invia armi. Anche alla Libia. Nel primo caso, per sostenere l’esercito che combatte l’aggressione di Mosca. Nel secondo, per impedire a profughi e migranti di raggiungere le nostre coste”. Anche il suo campo di detenzione è finanziato con “gli aiuti” europei e italiani. Insieme a Mohamed si è suicidata la solidarietà internazionale, la fraternità. E quella disparità di trattamento dei disperati chiamatela ipocrisia, cinismo, oppure sarebbe meglio dire schizofrenia. Nel frattempo che voi cercate la definizione migliore, la mia anima si inginocchia davanti alla vita muta di un diciannovenne al quale chiedere solo perdono»[vii].
Chi vuol costruire la pace viene accusato di trovare nella rinuncia la sua reale dimensione etica, è invece molto più “attivo” di chi vuole – nel migliore dei casi, osserva – la guerra: opera-agisce-denuncia-accoglie, si oppone alle potenze che si arrogano il diritto di decidere le sorti del mondo.
«Costruire la Pace non significa essere più buoni, significa diventare più intelligenti. Il pacifismo non è, come qualcuno in malafede racconta, il mondo delle anime belle e un po’ fricchettone. No: è il mondo dell’azione, della costruzione dell’alternativa e del confronto anche duro con la realtà. Essere pacifisti significa essere moderni, contemporanei, assolutamente dentro il proprio tempo, con consapevolezza, forza ed energia. Per queste ragioni il pacifismo fa paura» (Raffaele Crocco).
Chi non vuole la guerra, chi lotta per la pace non ha potere economico-politico ma ha un’arma potente che nessuno potrà vincere: la ragione, le ragioni della vita. È necessario far camminare le parole di pace per realizzare il sogno e l’utopia di un mondo senza guerra, perché come scrisse Brecht: l’uomo fa di tutto, può volare e può uccidere, ma ha un difetto: può pensare.
Il potere fa apparire come imperativo naturale scelte che, oggi più che mai, mettono in discussione il futuro della Terra.
Non sono certo il diritto, la sete di giustizia, libertà, uguaglianza a fermare i conflitti, la pace non si difende/costruisce in contrapposizione alla guerra come dimostrazione di potere, ma con una cultura di pace che, come primo passo, si insinua nella coscienza mondiale come consapevolezza di un “destino” a cui sarà impossibile sottrarsi se non si ricercano soluzioni alternative alle mille facce della guerra.
La guerra ha una lunga incubazione tra giochi di potere, arroganza, errori di valutazione, interessi economici e geopolitici… anche la pace ha lunghi periodi di gestazione, ma ha dalla sua parte, ripeto, le ragioni della vita. Se i soldati dei campi opposti potessero in libertà, fuori dalle ingerenze di chi mette loro in mano un fucile, confrontare emozioni, paure, desideri capirebbero, come cantava De André, di avere “lo stesso identico umore” e sarebbe facile comprendersi e, liberandosi da chi li comanda, costruire insieme la pace.
Oggi pace è divenuta una parola che divide, che ostracizza chi la pronuncia, non ha “santi in paradiso” di fronte allo strapotere economico-politico, la sua forza risiede in quello che diceva Gaber “un uomo che grida NO è un pazzo, 1000 uomini che gridano NO possono cambiare il mondo” … il futuro è far diventare quei mille NO, milioni.
È vietato pronunciare la parola pace.
Chi parla di pace oggi è il responsabile dei morti, della fame, delle distruzioni; chi difende la pace entra in liste nere…
Sì, si fanno liste di proscrizione di chi, legittimamente, offre l’occasione di una riflessione – non impone una lettura! – che ognuno può valutare e usare come crede, accettare o rifiutare. In un tweet si legge: «Ricordatevi questi nomi. Hanno scelto gli assassini, i torturatori, gli stupratori. Non li dimenticheremo», seguono i nomi di chi ha preso parte a Pace Proibita; Paolo Flores d’Arcais inserisce nella sua lista nera Bergoglio come putiniano: «anche il papa cade nella propaganda di Putin».
E quando si stendono liste nere, elenchi di chi può o non può parlare, l’ampia galassia che si oppone ad ogni guerra e cerca di diffondere una cultura di pace (che vale contro tutte le guerre) è considerata uno zibaldone di caos e stranezze, un circo Barnum sponsorizzato da Putin, accusata di vivere in un acquario come pesci esotici o inutile pezzo in un museo di cianfrusaglie che non interessano nessuno.
Eppure la maggioranza degli italiani non vuole l’invio di armi, eppure il senso comune popolare paga in termini di inflazione, perdita di potere d’acquisto, insicurezza sul lavoro e lo paga ogni idea di lotta al riscaldamento globale, ogni tentativo di “transizione ecologica”… la guerra taglia retorica e acrobazie di potere perché quando è la morte ad occupare la storia ogni logica cade[ix].
Edgar Morin ci mette in guardia:
«Attenzione all’isteria legata alla guerra, che ci fa vedere solo un lato della realtà, spesso più complessa. Non basta essere indignati o impegnati. Dobbiamo sapere in che tipo di mondo siamo. Questo è ciò che tutti i grandi pensatori hanno voluto fare. Dobbiamo fare una diagnosi corretta dell’uomo nel mondo e nella storia attuale. Prima dell’impegno, prima dell’indignazione, dobbiamo capire»[x].
È impossibile aver senso critico senza una prospettiva storica, priva di retorica e pregiudizi, è indispensabile come minimo una collocazione geografica per non rischiare di aderire a letture e giudizi che non sempre aiutano a capire.
Prima di febbraio la stragrande maggioranza non sapeva ben ubicare l’Ucraina, tanto meno conosceva la sua storia.
All’inizio della prima guerra contro l’Iraq, ci furono forti manifestazioni negli USA, soprattutto da parte degli universitari, contro l’invasione irachena del Kuwait ma pochissimi manifestanti sapevano dove si trovasse quella nazione; in Italia, un gruppo di deputati usciva da una riunione della commissione esteri sulla questione ucraina, interrogati da alcuni cronisti, quasi nessuno seppe dire con quali nazioni confinasse l’Ucraina… e in una guerra i confini non sono cosa di poco conto!
Nascono pericolose semplificazioni della complessità della realtà e polarizzazioni del pensiero che non lasciano alternative: o sostieni la guerra contro Putin o sostieni la guerra scatenata da Putin… “tertium non datur”: non è permesso scegliere la pace; è vietato pensare ad alternative – difficili, incomprese, piene di ostacoli – che non sono illusioni o miraggi ma ricerca di mezzi di salvaguardia per la vita dell’umanità intera: ma è davvero impossibile ricercare scenari diversi alla stretta logica della guerra?
Mi viene spesso in mente la novella Malpelo di Giovanni Verga:
«Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; e aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone».
Spesso le nostre analisi storiche seguono la stessa logica.
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