Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità ».
Questa caustica citazione di Vauvenargues, ripresa da Pierre Hadot per alludere al suo tentativo di tornare alle fonti della filosofia greca come maniera di vivere, è perfetta per lo sterminato commento del Vangelo secondo Matteo che Carlo Enzo sta pubblicando in questi anni. Ne sono usciti, dal 2010, quattro volumi, uno dedicato al «Progetto di uomo e di mondo delle generazioni di Israele in Genesi 1-4», che riprende Adamo dove sei? uscito per Il Saggiatore nel 2002, e altri tre dedicati a La generazione di Gesù Cristo, rispettivamente Gli Inizi della generazione, La Legge della generazione, La Regola dell’apostolo della generazione. A breve usciranno altri quattro volumi, tutti per Mimesis.
CON OCCHI E ORECCHIE
Una lettura davvero sorprendente: leggere con occhi e orecchie tutte diverse un libro arcinoto, scovare, fra le centinaia di commenti ai Vangeli, qualcosa che si discosta da tutto quello che siamo abituati ad aspettarci da una esegesi, anche da quelle più «nuove» o «rivoluzionarie». Ma sorprendente è anche l’assenza totale di reazioni, sia da parte del mondo ecclesiale, sia da parte della cosiddetta «cultura laica» (forse perché in Italia vige un doppio clericalismo, basato sul tacito accordo secondo il quale i «laici» dissentono, magari duramente dalla Chiesa, ma ne accettano l’interpretazione della Scrittura?). Carlo Enzo segue il metodo più tradizionale possibile, quello ebraico del midrash. Ogni passo, ogni parola viene minuziosamente indagata attraverso le sue ricorrenze, sempre nel contesto dei libri che formano la Bibbia. Dunque nessuna lettura dall’esterno, condotta a partire da teologie o da filosofie, da teorie semiologiche o narratologiche contemporanee.
Leggere i Vangeli con la Bibbia, tutto l’opposto di ogni tentativo di demitizzazione, scaltrito dalle nostre conoscenze storico-critiche. Eppure Carlo Enzo è uno dei pochi autori italiani che si siano cimentati seriamente con Bultmann, il grande teologo al quale si deve una interpretazione del cristianesimo fuori dal mito, compreso invece secondo categorie filosofiche vicine all’heideggerismo. L’approccio al testo non si appoggia sulla critica letteraria né sulle scienze umane, certo è filologia, ma filologia biblica, mostra cioè che questo testo è scritto in un linguaggio particolare, secondo un suo codice di rimandi e di significati interni. Potremmo dire, prendendo alla lettera il termine nel suo significato etimologico: è un geroglifico, sono «lettere sacre incise». Uno dei pochi moderni citati è Galileo Galilei: l’insegnamento contenuto nel Libro Sacro si riferisce a «come si vadia al cielo, non come vadia il cielo», così scriveva Galileo a Cristina di Lorena.
Di qui lo smontaggio di ogni valenza cosmologica o naturalistica, che riguardi il mondo fisico o l’uomo come specie. La Bibbia non parla di questo, non è questo lo scopo del suo racconto, del suo «mito», essa ha di mira un modo di vivere, frutto di una lunga e travagliata esistenza storica, che deve protendersi in un progetto di uomo e di mondo da costruire interrogando questa stessa esperienza. Non si parla dunque di «uomo» o di «donna», di «terra» o di «cielo», di «animali».
Il mio mito, dice Carlo Enzo-Matteo, in una lettera al suo interlocutore romano Cornelio, introduttoria a tutto l’Evangelo, «è progetto del proposito di Vauvenargues (il tetragramma impronunciabile del Nome di Dio), “sarò”, Dio di Israele e ideale della sua buona coscienza, di elaborare un “mondo” e un “uomo” che siano una eReTs (tradotto troppo semplicisticamente “terra” nelle versioni comuni), una nazione coltivata e salgano fino ai Cieli e diventino stelle, siano cioè luce per i “mondi” e gli “uomini” che stanno nel S_aDeH, nelle nazioni noncoltivate, o nel “mare”, nelle nazioni in cui gli uomini vivono impauriti dai loro tiranni e prigionieri di parole salate…».
LE PECORE DEL BUON PASTORE
Si capisce bene, allora, quali conseguenze abbiano spiegazioni del genere: per esempio, quando Gesù camminerà sulle acque non si tratterà di un prodigio per stupire con la potenza di supereroe o di un dio greco-romano, ma di un segno di chi sa attraversare senza timore il mare delle genti lontane dalla parola di vita che è il suo messaggio. Nessuno si sognerebbe di interpretare le «pecore» del Buon Pastore come vere e proprie pecore. Perché dunque questa regola non deve valere per tutto il testo evangelico? Se si seguisse la lettura di Carlo Enzo, scomparirebbero tutte le assurde discussioni su verità scientifiche e verità di fede, per la buona ragione che la Bibbia parla della creazione di un «mondo» etico-spirituale, di uno stile di vita, non di astronomia, così come sarebbero prive di fondamento biblico posizioni che volessero appellarsi alla «natura», in quanto creata da Dio, per dirimere questioni di bioetica.
Dio non ha creato nessun mondo fisico, si tratta di un progetto per abitarlo diversamente, e non da parte del genere umano, ma come storia del suo tipo umano, del suo Adamo.
Così si giunge a capire il titolo dell’opera di una vita di questo vecchio sacerdote e professore (Carlo Enzo ha 84 anni ): «la generazione di Gesù Cristo». L’Evangelo non parla solo della missione del Maestro Gesù di Nazareth, generato da Maria e Giuseppe, ma di Gesù Cristo, che è generato da Gesù stesso e dalla sua Ecclesìa, dai discepoli che continuano il cammino del suo popolo, di Israele.
Un mondo che è ancora nel suo farsi, un Gesù Cristo che è ancora in via di compimento. Riprendendo una parola dell’autore: la domanda fondamentale è se il messaggio evangelico può «ancora impegnare l’esistenza di un abitatore di questo pianeta» oppure se sia una delle tante visioni «che ha fatto il suo tempo, e fa parte ormai della storia delle dottrine sul mondo e sull’uomo».