Riproponiamo il saggio pubblicato nel novembre del 2000 sul nostro sito (http://www.italialaica.it/news/articoli/32672) ritenendo tutt’ora validi gli argomenti dell’indimenticabile e compianto Italo Mereu, grande amico di italialaica.
Intolleranza, tolleranza e libertà – con i loro derivati istituzionali – sempre di più appaiono nei nostri mass-media e costituiscono dei termini quasi scaramantici da pronunciarsi prima o durante qualsiasi manifestazione politica, religiosa che comunque richiami i valori fondamentali della vita associata. Contro l’intolleranza – oggi soprattutto quella della cosiddetta normalità sessuale, o quella razziale – non c’è politico o intellettuale che non abbia versato il suo obolo e recitato le proprie giaculatorie, stigmatizzandola come il peggiore dei mali. Della tolleranza, invece, si parla sempre bene – anche perché non si precisa mai che cosa s’intenda – e perché è sempre presentata come un antidoto miracoloso moderno da opporre alla rusticità dell’intolleranza, che tutto annulla e distrugge nel suo esclusivismo. Eppure, a guardare con un po’ di attenzione ci si accorge che entrambi i concetti sono – o meglio appaiono – posticci e falsi come i fiori di plastica.
Sono due concetti che hanno radici lontane: tanto per indicare delle date, per il concetto di tolleranza almeno dal 313, quando Costantino e Licinio concedono ai cristiani e a tutti il pieno diritto di seguire ognuno la religione che preferisce, e per il concetto di intolleranza quella del 380, quando l’imperatore Teodosio decreta che l’unica religione nell’impero deve essere quella cattolica apostolica romana. Sono due date importanti che segnano un cambiamento di rotta. Il passaggio, cioè, dall’Europa tollerante perché politeista, a quella intollerante – cioè monoteista. Eppure chi volesse saperne di più non troverà che notizie scarne.
Che cos’è l’intolleranza?
Un’idea ossessiva, chiamata anche fede.
L’intolleranza è l’assoggettamento totale e servile a un’idea che si dichiara l’unica possibile in cui credere e da sostenere, anche con la forza, perché non possono esisterne altre diverse e migliori. È la certezza di essere in possesso della verità assoluta, con la volontà inesorabile di imporla contro l’errore – come vengono chiamate le idee diverse – combattendo con ogni mezzo – cioè con le armi legali e illegali – per riuscire a imporla.
La prima organizzazione storica che si dichiara portatrice di una simile idea intollerante ed esclusiva, in Europa, è stata la Chiesa cattolica romana, che aveva riassunto tale programma sotto la formula: Extra Ecclesiam nulla salus, fuori della Chiesa non c’è salvezza. E per adempiere a tale missione la Chiesa metterà in opera tutti i mezzi che avrà a sua disposizione. E voglio subito precisare che qui si guarda alla Chiesa cattolica non come a una comunità di credenti ma alla Chiesa come organizzazione giuridico-politica, di cui diamo la struttura istituzionale, come tipica di ogni sistema intollerante.
Se lintolleranza è lassoggettamento servile a unidea, che si crede lunica da sostenere, anche con la forza, perché non possono esisterne diverse e migliori, il sospetto è il radar magico che difende tale idea-verità da qualunque influsso dannoso e da qualunque possibile attentato. Sempre in opera, tende a segnalare non solo le idee diverse, per abbatterle e renderle innocue, ma serve anche a soffocare tutto ciò che – da un minimo segnale – si presume possa contrastare o mettere in pericolo l’idea in cui crediamo. È come una sentinella un po’ stupida ma sempre all’erta. Spara su tutto ciò che le sembra non rientri nella consegna ricevuta.
L’intolleranza e il sospetto sono, dunque, due forme di stupidità che derivano e dipendono sempre da un’idea ossessiva – chiamata anche fede – in cui si crede come alla sola e alla vera. È in questo accecamento l’origine del tumore. Sta qui il punto di partenza di tutte le reazioni che subito seguiranno.
La fede esclusiva e intollerante in un principio (ad es. quello religioso), in un’istituzione (ad es. la proprietà), in un avvenimento storico (ad es. la rivoluzione), in una classe sociale (ad es. la borghesia e il proletariato), è il virus che tutto infetta. È la droga che, una volta ingerita, distrugge inesorabilmente qualunque capacità di ragionamento e porta alla visione beata di un domani senza problemi, con molte bandiere al vento.
Strettamente legata c’è l’ortodossia, cioè l’unico modo corretto d’intendere la fede. Essa viene fissata in princìpi – chiamati anche dogmi – assolutamente indiscutibili, in cui bisogna credere e basta.
Da fede e ortodossia nasce il concetto d’obbedienza, che deve essere pronta e assoluta verso l’autorità gerarchica che rappresenta e guida l’istituzione. L’istituzione (chiesa, monarchia, partito) rappresenta storicamente la fede, e assume, nei confronti dei singoli e della collettività, la funzione della grande Madre che tutto risolve e realizza.
L’istituzione è governata da una classe dominante (sacerdoti, guerrieri, politici, funzionari) che si proclama rappresentante della fede per mandato ricevuto – dalla divinità, dalla fortuna, o dagli uomini – e che si costituisce in gruppo dirigente, privilegiato e intoccabile.
Dalla fede derivano fedeltà e fedele. Sono termini con cui viene qualificato il comportamento devoto e obbediente dei seguaci. Dal IV secolo ai giorni nostri, la fedeltà, intesa come la totale fiducia in chi comanda, è una caratteristica che ogni potere cerca di mettere in evidenza con atti particolari: il battesimo, il giuramento, l’iscrizione al partito; e con cerimonie associanti: processioni, autodafé, dimostrazioni, con cui si cerca di dimostrare il perfetto accordo di tutti.
La logica inesorabile dell’esclusione
In opposizione alla fede, all’ortodossia, all’obbedienza e alla fedeltà, c’è la devianza. È una parola oggi di moda come i blue jeans. Ma il concetto è vecchio di secoli. Devianza è l’allontanamento dalla retta via, cioè dalla vera fede, che è solo quella del gruppo che comanda.
La devianza è come una scala. Ha tanti gradini.
Il primo è quello di simpatizzante del nemico (così viene (s)-qualificato sempre chi la pensa in modo diverso).
Il secondo è quello di fiancheggiatore, cioè di chi collabora – o comunque aiuta il nemico – senza mai impegnarsi apertamente.
Il terzo è quello del sospettato, cioè di chi ha fatto o detto qualche cosa che può essere interpretata anche come dannosa e contraria all’idea.
C’è poi l’eretico dichiarato, cioè colui che viene condannato dall’autorità, perché fuori dalla fede comune.
C’è l’apostata e, come viene chiamato oggi, il transfuga o rinnegato.
C’è lo scismatico, cioè colui che si ribella, si allontana e costituisce, con altri, un gruppo nuovo in opposizione a quello preesistente.
C’è, infine il diverso, (pagani, ebrei, musulmani, popoli di colore, oppure omosessuali, sottoproletari, ecc.) che è sempre stato trattato seguendo il principio che si può riassumere nella formula: o consenso o repressione.
Questi concetti che abbiamo elencato sono tutti legati fra loro. Dove c’è l’uno, l’altro non può mai mancare. E tutti non mirano che a uno scopo: propagandare, affermare e difendere la sola verità in cui si crede contro tutte le altre, opposte e diverse, anche usando la forza. (Si pensi, ad esempio, alle crociate e all’inquisizione nel Medioevo e nell’epoca moderna; alla ghigliottina e al terrore durante la rivoluzione francese; al domicilio coatto e alle stragi dei popoli colonizzati durante il periodo liberale; alle fucilazioni e alle deportazioni di massa durante e dopo la rivoluzione bolscevica; alle purghe e alla legislazione speciale nel periodo fascista; ai lager e alle camere a gas durante il nazismo, ecc.).
In una società organizzata secondo il principio di intolleranza, deriva da ciò l’importanza, per lindividuo, di essere considerato un fedele dell’istituzione, per ottenere incarichi importanti e redditizi. Già dal IV secolo essere chiamati cristiani era una delle condizioni indispensabili per poter essere chiamati a ricoprire posizioni di comando. Gli altri (gli apostati, gli eretici, i pagani e gli ebrei) erano sempre esclusi quando non venivano perseguitati. Come pure, è chiaro quanto sia dannoso l’essere considerato un sospettato deviante. Essere chiamato cataro o albigese nel Medioevo; luterano, calvinista o papista (fra i protestanti) nel Cinquecento; copernicano oppure galileista nel Seicento; aristocratico durante la rivoluzione francese; giacobino o liberale nel periodo della Restaurazione; anarchico, repubblicano o socialista, nell’Italia liberale; massone, ebreo, o comunista, durante il periodo fascista: è un modo per squalificare una persona, per metterla fuori gioco e per farla arrestare rendendola sospetta all’autorità.
Dal pluralismo religioso all’assolutismo
Creatrice e sostenitrice prima di questa politica fondata sul principio d’intolleranza è stata la Chiesta cattolica (e qui si ripete che si parla della Chiesa non come comunione di credenti, ma della Chiesa come organizzazione giuridico-politica). La formula consenso o repressione, che caratterizzerà la politica (lato sensu) penale della Chiesa risale al IV, V e VI secolo e senza tenerne conto (anche per i frequentissimi richiami ai Padri della Chiesa) si rischia di non intendere il significato di molte affermazioni. Nasce in quell’epoca il diritto romano-cristiano, come lo chiama il Biondi, un maestro dell’Università cattolica di Milano, oggi ingiustamente dimenticato, e si afferma come il braccio secolare dell’intolleranza cattolica.
La Chiesa cattolica si proclama, tra tutte le altre Chiese monoteistiche o cristiane sparse nel Vicino Oriente e nel bacino del Mediterraneo, come l’unica, la sola e la vera interprete del messaggio evangelico; la custode e la guida fedele e autorizzata del mandato divino.
È da questa posizione d’intolleranza costituzionale che bisogna partire se si vuole intendere storicamente le diverse forme in cui sarà organizzato l’apostolato penale.
Per tutta l’età classica lo Stato aveva assicurato ampia libertà e anche i cristiani erano per l’assoluta libertà di religione.
Tertulliano scriveva: È un diritto umano e di natura che a ciascuno sia consentito di venerare ciò in cui crede; la religione non può nuocere, né essere dannosa all’altro. E poi non è della religiosità costringere alla religione, che deve essere accettata spontaneamente e non con la forza, perché i sacrifici non sono chiesti che volontariamente. Così anche se ci costringete a sacrificare, niente di meritevole farete verso i vostri dei; essi non desiderano sacrifici contro voglia; a meno che non siano litigiosi; ma Dio non può esser litigioso.
E Lattanzio ugualmente affermava: È solo la religione il luogo dove la libertà ha posto il suo domicilio; fra tutte è la cosa più volontaria, né la necessità può imporre a qualcuno di adorare ciò che non vuole. Lo potrà simulare, ma non volere. E in un altro passo diceva: Bisogna difendere la religione non uccidendo ma morendo per essa; non con la crudeltà ma con la pazienza, non con il delitto, ma con la fede… Perché se tu vuoi difendere la religione con il sangue, con i tormenti e con il dolore, questo non sarà un difenderla, ma uno sporcarla e oltraggiarla. Niente infatti è tanto volontario quanto la religione e se l’animo di chi sacrifica è contrario, essa sparisce e si annulla.
Sono tutti passi che verranno citati nel Cinquecento dagli eretici radicali, in polemica con le chiese costantiniane: quella cattolica e quelle protestanti.
La fondazione dell’impero cristiano
Con gli imperatori cristiani, che fanno da pendant giuridico ai Padri della Chiesa, i presupposti cambiano: La religione annunciata da Cristo non è una delle tante che possono benissimo coesistere, ma è la vera, l’unica; quindi ogni altra non solo è insania ed errore, ma rappresenta un pericolo sociale. Professare una diversa religione o professare la stessa religione cristiana ma in modo diverso da quello che professa la Chiesa cattolica e apostolica, è di per sé un male sociale, indipendentemente dalle sue manifestazioni. Sorge così la necessità della difesa della fede ortodossa, concepita come difesa sia dei singoli che della società nel suo complesso. Considerato Dio come supremo reggente del mondo, padrone della vita e della morte dei singoli e dello Stato, l’infedele si considera come colui che può attirare l’ira divina anche sulla collettività. Perciò lo Stato ha il diritto e il dovere di difendersi.
Da questi presupposti d’intolleranza partiranno tutti: da Costanzo e Costante, figli di Costantino, a Costanzo III, a Teodosio, a Giustiniano.
Sono gli imperatori cristiani: ma a fianco di ognuno, e sotto ogni legge, è possibile (come ha fatto il Biondi) porre l’ispirazione, il consiglio, il suggerimento, l’ordine di un Papa o di uno dei Padri che vengono a svolgere le funzioni dei giuristi classici. Imperium et sacerdotium si alleano e combattono per la stessa causa; o meglio è la Chiesa (che ha elaborato la teoria che ogni potere deriva da Dio, e quindi quello temporale è sottomesso allo spirituale) che dirige, sollecita, ordina, prescrive, e sono gli imperatori che puntualmente eseguono.
La religione cattolica entra così nel diritto e ne diventa il nucleo genetico. Il suo influsso lo plasma e lo trasforma con quella tecnica che chiamerei cattolica.
Costantino – secondo un riferimento del Codice teodosiano – dichiara che niente altro vogliamo ordinare che quanto la fede e la tradizione dei Vangeli e degli apostoli ci ha conservato. La lex christiana, la sanctissima lex, la sacrosanctae religionis auctoritas sono sempre esaltate. L’imperatore Costanzo pone la religione a fondamento dello Stato, al di sopra di ogni attività e fatica umana; Valentiniano e Arcadio considerano sacrilego chi si allontana dai riti della santa religione. Nei mandata di Onorio e Teodosio che provvedono al Concilio di Cartagine del 410, si premette che quella cattolica è la prima e la sola legge. Nel Concilio di Calcedonia del 451, Marciano dichiara che fra tutte le necessità della repubblica, ciò che più interessa è che la religione cattolica rifulga in tutto il suo splendore e che tutti professino la medesima fede. Tutti i testi legislativi sono sempre contrassegnati da una dichiarazione in cui espressamente si fa riferimento alla religione cattolica. La legge Cunctos populos promulgata nel febbraio del 380, fra tutte, è quella che più ci interessa. Inclusa nel Codice teodosiano sotto la rubrica De fide catholica e nel Codice di Giustiniano sotto la rubrica De Summa Trinitate et de fide catholica et ut nemo de ea publice contendere audeat, sarà considerata dal padre della storia ecclesiastica, il cardinale Cesare Baronio, aurea sanzione, pio e salutare editto. In questa legge si prescrive e si ordina assolutamente a tutti di essere cattolici: Vogliamo che tutti i popoli … vivano nella religione cattolica. Da questo momento comincerà il monolitismo religioso e dalla libertà religiosa pagana si passa all’apostolato, dall’apostolato, con crescendo spaventoso, all’intolleranza e persecuzione.
Lo schema ideologico che verrà messo in opera è il seguente. Come presupposto e fondamento ci sono i precetti di fede cattolica e di ortodossia, e come conseguenza prima c’è quello di intolleranza.
La fede è quella nicena; e per ortodossia si intende la tendenza ideologica vincente che si è alleata con l’impero romano.
Il potere temporale contro l’eresia
A questi concetti si affianca subito quello di fedele, come suddito devoto e ubbidiente. È un concetto molto importante agli effetti pratici. La summa divisio personarum non sarà più quella fra liberi e schiavi, ma quella tra fedeli e infedeli. L’infedele può essere paragonato allo straniero. Vive al di fuori della comunità cristiana e paragonato allo straniero. Vive al di fuori della comunità cristiana e non è pienamente partecipe dei diritti. La cittadinanza perde d’importanza. L’unico titolo che dia pienezza di diritti è quello di appartenere alla fede cattolica. Non si può essere insegnanti, avvocati, o procuratori, come non si può rivestire nessuna carica importante senza quella qualità. Quello di fedele diventa già da allora titolo prioritario e indispensabile. Il palazzo – intendendo il lemma nel senso moderno di centro del potere – è la prima qualità che richiede.
Già da allora la lotta contro le eresie si concepisce come difesa sociale, scrive il Biondi. La salvezza della società coincide con la prosperità della Chiesa (quae… pro salute communi hoc est pro utilitatibus catholicae sacrosanctae Ecclesiae).
È in quest’epoca e secondo quest’ottica che nasce il concetto di eretico inteso come deviante. La prima definizione giuridica di eresia – che resterà poi quella fondamentale per i giuristi – è tutta basata su quel fondamento. Dice il Codice teodosiano: Sono chiamati con il nome di eretici e devono sottostare alle sanzioni per questi previste coloro che furono scoperti devianti (detecti fuerunt deviare) dalla linea della religione cattolica.
Deciani, nella seconda metà del Cinquecento, non farà che ripeterla e specificarla: L’eresia è un nome infame presso tutti i popoli cristiani e sta a significare qualunque perversa opinione che devia dalla fede cristiana (a fide christiana deviantem).
La figura criminale dell’eretico è così costruita su un concetto giuridicamente molto chiaro e (per quei tempi) nuovo: è eretico (cioè, criminale) chi devia, chi si allontana, chi non si allinea, chi si allontana dalla linea, dal dogma, dai princìpi posti dalla Chiesa.
Non è ancora il concetto più tecnico che elaboreranno i canonisti (L’eresia è un errore intellettuale volontario contro qualche verità di fede, fatto proprio con pertinacia da un fedele) ma il termine devianza indica abbastanza chiaramente l’allontanamento dalla retta via. Le altre saranno conseguenze. Il concetto di pertinacia, che sarà posto come la discriminante fra l’errante e l’eretico, è pure in quest’epoca che viene elaborato.
A differenza degli altri crimini, chi non persevera, ma si pente e chiede di rientrare nel grembo della Grande Madre, sia pure con le dovute cautele e precauzioni, è perdonato ed è accolto.
Solo verso l’eretico pertinace o convinto non c’è pietà. Si afferma tranquillamente che con questo genere di uomini non dev’esserci niente da spartire. La loro è solo pazzia da reprimere. Debbono essere esecrati, perché sotto opinioni diverse nascondono un’unica perfidia (Diversa sunt nomina, sed una perfidia).
A scorrere i testi del Codice teodosiano e di quello giustinianeo, le leggi contro gli eretici sono numerosissime. Tutta questa legislazione, non solo ha la piena approvazione della Chiesa, ma è fatta su suo suggerimento. Da Leone Magno a Sant’Ambrogio, a Sant’Agostino, è tutto un elogio per l’aiuto del potere temporale nel combattere contro l’eresia.
Nel Concilio di Cartagine del 404 la Chiesa chiede l’intervento imperiale contro i donatisti. I diversi concili che si succedono in quest’epoca ripongono sempre ogni speranza in un suo intervento e chiedono di rimettere in vigore le leggi speciali contro gli eretici.
Da Agostino a Tommaso
Sant’Agostino riconosce la forza di persuasione che hanno le armi.
È la teoria del consenso o repressione, che in questo periodo viene elaborata proprio sull’esempio di tali avvenimenti. Scrive Sant’Agostino: dapprima era mia convinzione che nessuno dovesse essere indotto con la forza nell’unità della Chiesa, che si dovesse agire solo con le parole, che si dovesse controbattere con la discussione, e vincere con la ragione; perché, altrimenti, avremmo con noi falsi cattolici anziché aver di fronte degli eretici dichiarati: tale convinzione ha dovuto piegarsi non di fronte alle parole ma dinanzi ai fatti: la mia città che, prima, era stata tutta con il partito donatista, in seguito è stata ricondotta all’unità cattolica dal timore delle leggi imperiali (timore legum imperialium).
Questa esperienza di apostolato armato gli consente di enunciare il principio generale per cui, come si trattiene con la forza un matto e gli si impedisce di buttarsi in un precipizio, così è meglio prima spaventare e impaurire i devianti e i diversi, e solo in un secondo momento istruirli. Naturalmente la regola è adornata e rafforzata con citazioni ed esempi tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento. Si citano come slogan le parole di Luca: costringi ad entrare (compelle entrare, XIV, 23), fornendo così la parola d’ordine per tutte le persecuzioni successive. Il tutto è concluso con una domanda retorica che attende una sola risposta: che cosa è peggio, la morte dell’anima o la libertà dell’errore?
Questi passi, sempre citati da tutti, diverranno una specie di formula di battaglia: quanti aderiranno alla fede saranno accolti nel seno della Chiesa; per gli altri non ci sarà che la confisca dei beni e l’esilio. Non si arriva ancora – a quanto riferisce il Biondi – all’uccisione dell’eretico. È un perfezionamento legislativo posteriore che sarà portato in seguito con l’Inquisizione medievale e che troverà il consenso e avrà l’approvazione anche di san Tommaso: a proposito degli eretici, egli scriverà infatti che non solo devono essere separati dalla Chiesa mediante la scomunica, ma devono anche essere esclusi dal mondo con la morte. Ma, ripetiamo, è un perfezionamento posteriore. Scrive infatti il Biondi: la legislazione imperiale non arriva a tanto… Nessuna legge infatti commina la pena di morte.
Oltre ai devianti, ci sono i diversi. Innanzitutto i pagani che verranno perseguitati, spogliati di tutti i loro averi, scacciati dai pubblici uffici e mandati in esilio. Poi i maghi, gli astrologi e i divinatori. Anche contro questa categoria le punizioni saranno sempre delle più severe. La Chiesa non può ammettere – come dirà anche nel Concilio di Trento – il ricorso al mistero o al maligno. E infine gli ebrei. Contro gli ebrei la legislazione della Chiesa è stata sempre molto dura. Come discendenti degli uccisori di Cristo, saranno sempre trattati da minus habentes, e sottoposti a una legislazione speciale. Nel IV o V secolo, oppure nel XVI e nel XVII, la legislazione, anche in questo punto, non varia mai.
Conclude il Biondi: In definitiva si può dire che ai fattori spirituali che operano nell’intimo della coscienza e all’opera diuturna della Chiesa, si accompagnano su un altro piano, ma non meno efficienti, le sanzioni dello Stato. Giustiniano assicura papa Giovanni che al suo tempo le eresie sono scomparse e che tutti uno ore professano la retta fede cattolica. A questo risultato non sarebbe certo pervenuto lo Stato, come inversamente la Chiesa da sola, con la semplice penetrazione spirituale, difficilmente vi sarebbe arrivata. Grande fu l’opera della Chiesa, ma non meno grande quella dell’Impero: queste supreme autorità, nell’ambito dei propri poteri e delle proprie forze, hanno contribuito al progressivo affermarsi della fede. L’uomo sente tutta la forza dei precetti morali e religiosi, ma non meno potentemente sente quelli della coercizione esterna; altrimenti tutto il diritto sarebbe superfluo di fronte alla legge morale e religiosa.
L’influenza clericale nel diritto penale
E fermiamoci qui.
Dunque dal punto di vista ideologico e dell’effettività, la violenza legale, fatta su ritmi prestabiliti che mirano a costringere alla conversione o a punire i recalcitranti ricorrendo alla forza della legge come mezzo deterrente (la funzione esemplare e medicinale della pena, come si chiamerà con termine tecnico), risale ai Padri della Chiesa e agli imperatori romano-cristiani. Tutti i concetti fondamentali per capire il diritto penale dobbiamo cercarli proprio in questa impostazione. Il pensiero posteriore non è che un adattamento. Le idee fondanti sono sempre quelle. I concetti di fede, intolleranza, ortodossia, obbedienza, gerarchia, fedeltà, devianza, eresia restano immutati. È allora che viene creato il prototipo, che sarà ripetuto poi con varianti di poco conto dai pontefici del Medioevo o da quelli del periodo della riforma: da Alessandro III, Paolo IV, Innocenzo III o Pio V. L’idea della preminenza del potere spirituale sul potere temporale, l’idea di braccio secolare, il mutuo e scambievole aiuto fra i due poteri si riferiscono e si richiamano sempre a quella impostazione.
Per questo il diritto penale della Chiesa, oltre a essere prioritario fra tutti gli altri dell’Europa, è un diritto che non ha mai innovazioni né sviluppi; perché non farà altro che tentare di raggiungere il fine che i Padri con le loro teorie e gli imperatori romano-cristiani con la Cunctos populos avevano assegnato alla legge: quello di essere lo strumento per l’affermazione del cristianesimo. Dal punto di vista tecnico, invece, il fine si cercherà di raggiungerlo adattando i mezzi al mutare delle circostanze. E se per molto tempo (fino al secolo XII) la Chiesa preferirà far punire i devianti e i diversi direttamente dal potere laico, in un secondo momento, quando vedrà messa in serio pericolo la propria egemonia ideologica dall’estendersi dei movimenti ereticali (soprattutto in Francia), allora gestirà direttamente la violenza legale, ed escogiterà tutto un nuovo apparato procedurale che avrà nel sospetto dell’autorità, e cioè nella presunzione di colpevolezza, il suo punto di forza e trasformerà il braccio secolare in un semplice esecutore.
Sarà un’innovazione molto importante non solo nella storia della Chiesa, ma anche dell’Europa continentale, perché il diritto, da tale innovazione, uscirà trasformato e caratterizzato in senso antiromanistico.
In questo senso è condivisibile l’affermazione di Mariano da Alatri quando scrive: L’Inquisizione è una pagina della storia della Chiesa; ma essa costituisce forse, addirittura, un capitolo della storia della civiltà occidentale.
A parte il richiamo alla storia della civiltà occidentale, che è discutibile (perché da questa civiltà bisognerebbe escludere l’Inghilterra, sempre contraria al sistema inquisitorio), questa è indubbiamente un’innovazione decisiva per l’Europa continentale, e richiederà tutta l’autorità carismatica e la forza politica che la Chiesa aveva nel Medioevo per poter essere imposta, e per potersi dire sicuramente affermata.
Basterà pensare che uno dei maggiori intellettuali del Medioevo, san Tommaso, nella sua Summa Theologica dirà che giudicare uno in base al sospetto è un peccato mortale, per capire quali e quante difficoltà troveranno i teologi e canonisti per giustificare questo supporto; e come i maestri del ‘500 e del ‘600 saranno costretti – non potendo citare l’Aquinate, che in quel periodo comincia a essere il filosofo della Chiesa – a servirsi di quanto aveva lasciato scritto il Gerson, un teologo dell’epoca del Concilio di Costanza, che in una sua opera aveva giustificato, in qualche modo, i gradi in cui si poteva intendere e svolgere il nuovo supporto.
La tolleranza postribolare della Chiesa cattolica
A fianco del concetto istituzionalizzato d’intolleranza, c’è quello alternativo e opposto rappresentato col nome equivoco e cangiante di tolleranza (che poi in epoca moderna sarà trasformato addirittura in sinonimo di libertà). Il concetto ha tre varianti.
In primis c’è la variante cattolica. Si tollerano – cioè si sopportano -determinati atteggiamenti, idee, abitudini quando per necessità, naturali o contingenti, non si è in grado di eliminarle neppure usando la forza legale. La variante ha un’origine postribolare. La Chiesa del IV secolo prenderà atto che una concezione puritana e rigorosa della sessualità – se pure proclamata nel campo ideologico – in quello dell’effettività sarà difficile realizzarla, come è facile dedurre dalla lettura della IV Novella, dove si parla della licenza dei costumi. La Chiesa di ciò prende atto nei concili.
È Agostino che comincia ad avanzare come ideologia di supporto che la prostituzione è un male necessario che la società deve permettere per evitare che tutto venga sconvolto dalla lussuria omosessuale. Togli le meretrici dalla società e tutto sarà sconvolto dalla più turpe lussuria scrive sant’Agostino. È il seme giuridico di concetto di tolleranza – cioè della liceità giuridica, o per meglio dire di un’attività illecita non perseguibile – che, proprio per giustificare l’attività meretricia, comincia a farsi strada, e che finirà per essere il sostegno ideologico più valido per tutte le leggi e i provvedimenti in favore del meretricio, organizzato o no. L’idea di sant’Agostino sarà ripresa dalla Scolastica parigina. Alberto Magno (1193-1280) dirà che la legge umana consente la prostituzione femminile perché non capiti niente di peggio (ne peius aliquod fiat). L’allievo (san Tommaso d’Aquino) trasforma l’enunciato in un postulato di prassi politica generale. Richiamandosi a sant’Agostino, dirà che coloro che comandano, giustamente tollerano alcuni mali (recte tolerant aliqua mala) perché alcune cose buone non diventino impraticabili (ne aliqua bona impediantur). Il concetto è fatto proprio dai canonisti. L’Ostiense – cioè il cardinale Enrico da Susa, professore di diritto canonico a Bologna e a Parigi – fons iuris come sarà chiamato anche questo contemporaneo di san Tommaso – istituzionalizzerà il concetto dicendo che il prostituirsi è indubbiamente un peccato mortale, ma la Chiesa lascia correre (sub dissimulatione transit) perché a soffiarsi il naso con troppa energia si provoca l’epitassi (quia qui nimis emugit, elicit sanguinem). Nel ‘500 è ripreso dalla scolastica spagnola e dai giuristi laici e si ripete che i principi cattolici permettono i lupanari, non perché li approvino ma per impedire gli adulteri, gli incesti, e gli altri peccati e delitti sessuali.
La prostituzione femminile è presentata così come un male necessario che bisogna tollerare. Ha la stessa funzione della cloaca. Da qui l’utilità sociale (e anche economica) delle meretrici che dovranno pagare con le loro decime alla Chiesa – come scriverà nel Medioevo Alberto da Rosciate, e come continueranno a ripetere i giuristi tutti. Nell’800 e nel ‘900 il sintagma casa di tolleranza diventa addirittura il simbolo di una politica sul sesso. Per cui si può dire che il lemma tolleranza per il cattolicesimo è simile a quello di prostituzione.
Da Locke a Voltaire
Chi invece darà una risposta diversa – cioè basata sul concetto di reciprocità – saranno Locke e John Milton. Nella sua Epistola sulla tolleranza, Locke dirà che bisogna essere tolleranti con tutti fuorché con gli atei e i papisti, cioè i cattolici; un concetto analogo esprimerà anche Milton nel suo Areopagitico. Anche lui partirà dal concetto cristiano che bisogna tollerare piuttosto che costringere tutti a pensare nello stesso modo. Ma con questo non voglio che sia tollerato il papismo con la sua evidente superstizione, perché esso cerca di estirpare ogni altra religione o autorità politica, mentre dovrebbe essere esso stesso estirpato. Tanto lui quando Locke avevano capito bene i concetti di tolleranza e di intolleranza. Si tollerano, cioè si sopportano, determinate idee e persone quando – per ragione di ordine pubblico – non si è in grado di eliminarle, purché la loro esistenza non sia tale da mettere in pericolo ciò che si deve tutelare. È quanto aveva avvertito il conte di Mirabeau nell’Assemblea Nazionale francese quando affermando che il concetto di tolleranza è un concetto tirannico perché l’autorità che tollera potrebbe anche non tollerare. In altre parole: l’autorità che tollera potrebbe anche non tollerare, cioè si tratta di un fatto politico e non di un diritto costituzionale. Così intesa, la tolleranza è uno stato di fatto e non un diritto: non può consentire né programmi, né progetti, né rivendicazioni, né aspettative perché è fondata unicamente sulla buona volontà di chi è in condizioni di permetterla o di negarla a seconda dei propri interessi politici.
Un concetto diverso di tolleranza è quello enunciato da Voltaire nel suo Dizionario filosofico. Egli dice: Siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini; è la prima legge di natura. Qui non è più l’autorità che – in base a princìpi primi di cui solo lei sa la ragione – ci dice ciò che dobbiamo o non dobbiamo sopportare, ma è un senso soggettivo e personale delle imperfezioni su cui la vita di ogni uomo è fondata, che si trasforma in un autentico sentimento socratico di imperfezione, che ci deve indurre al concetto di fratellanza e umanità, espresso con quest’analogia: Un giunco piegato dal vento contro il fango, dovrà forse dire al giunco suo vicino: Striscia come striscio io, miserabile, o ti denuncerò per farti sradicare e bruciare!. Da questa posizione personalistica partono tutte le sue critiche al cristianesimo, fra tutte le religioni quella che per i suoi precetti dovrebbe ispirare maggior tolleranza, mentre i cristiani, fino ad oggi, sono stati i più intolleranti fra gli uomini. In contrasto, ecco gli esempi di altri Stati e di altre religioni: Pensiamo che in tutta l’America inglese, che è circa la quarta parte del mondo conosciuto, è oggi stabilita la piena libertà di coscienza … Ricordiamoci sempre che la prima legge dell’impero di Russia, più esteso dell’impero romano, è la tolleranza di qualunque setta. Che l’impero turco e il persiano usarono sempre la stessa indulgenza, giacché Maometto II, quando prese Costantinopoli, non obbligò i cristiani a lasciare la loro religione, seppure li considerasse idolatri.
Sono tre modi diversi di concepire la tolleranza e non c’è modo di conciliarli. C’è il primo per cui la tolleranza è uguale alla sopportazione di un male minore, ed è il concetto cattolico. C’è il secondo dove la tolleranza esiste – cioè è permessa – a condizioni di reciprocità. Dunque niente tolleranza verso i cattolici perché, diceva Locke, sono intolleranti (come pure e per le stesse ragioni nessuna tolleranza verso gli islamici perché sono intolleranti).
C’è il terzo (Voltaire) per il quale la tolleranza è virtù soggettiva e civile che bisognerebbe diffondere e affermare ovunque, perché è l’unica che possa darci reciproca sicurezza e felicità.