Un grande dito indicatore
Memini, oh sì che mi ricordo. Erano gli anni del post-Concilio, Dio non parlava più in latino e io
respiravo a pieni polmoni. Il Vangelo, ai miei occhi di adolescente in fervore, appariva dinamite,
non oppio. Nelle pagine della Bibbia trovavo un Dio che esalta la dignità dell’uomo, poiché «l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (Salmo 8). Nei libri di don Milani e nelle poesie di padre Turoldo capivo che la speranza dell’aldilà non allontana dal mondo, anzi dà motivazioni forti per i fronti di lotta, le convergenze etiche, le battaglie per l’alleggerimento della terra. Mi sentivo parte di un popolo, non di una struttura ecclesiastico-religiosa. Nei nostri incontri parlavamo di rispetto della libertà religiosa, dei semi di verità presenti nelle religioni non cristiane, di dialogo con gli atei. Nelle discussioni accese con i non credenti facevo riferimento alla vita dei primi cristiani: pescatori, gente ordinaria, sempre braccati dalle grandi istituzioni religiose e politiche. E ancora di più mi piaceva citare un libretto dell’età appena posteriore agli Apostoli che contiene una lettera di autore ignoto a uno non meno sconosciuto, Diogneto: «Abitando nelle città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l’abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, i cristiani mostrano il carattere mirabile e paradossale del loro modo di vivere». Vivevo queste dimensioni in parrocchia ma le imparavo principalmente nell’Azione cattolica italiana. Era l’Ac del nuovo Statuto del 1969, voluto da papa Montini e realizzato da Vittorio Bachelet e monsignor Franco Costa, che era l’assistente nazionale (cioè il vescovo che la gerarchia ecclesiastica pone come guida spirituale dell’associazione). I documenti associativi, a dire il vero, mi sembravano inutilmente complicati e mi mettevano noia, ma l’atmosfera generale degli incontri e delle settimane formative mi convinceva e mi ha impregnato in maniera sostanziale. Ho assorbito la linea, ufficialmente denominata «scelta religiosa» e associata alla «cultura della mediazione», ma che per me era molto più semplicemente una «linea aperta neanche così difficile da spiegare. Il cristiano segue Gesù Cristo e Gesù Cristo è più grande della Chiesa. Lo spirito del Risorto è all’opera in ogni angolo del mondo. Abita l’esistenza umana in tutte le sue forme, anche nei tradimenti e nelle distorsioni che l’attraversano, spingendola verso il compimento, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). La Chiesa è al servizio di questa bella notizia. A differenza delle organizzazioni di questo mondo, si dimentica di sé. Non calcola niente, non ammucchia niente, non edifica niente. Si preoccupa unicamente di abbattere idoli e preparare strade, alla maniera di Giovanni Battista. Nella crocifissione del grande pittore tedesco Grunewald, il Battista è raffigurato con una vistosa anomalia nella mano: un dito enorme che indica Cristo e accanto la scritta «Lui deve crescere, io sminuire». In quel tempo credevo in una «comunità alternativa» senz’altra ambizione che quella di essere un grande dito indicatore.
Chi non è con noi, è contro di noi
Quest’impostazione ariosa – l’ho capito meglio con il passare del tempo – era assai pericolosa. Metteva in scacco la visione di una Chiesa chiusa in un’arrogante pretesa di perfezione, una specie di arca di Noè, ben impeciata all’interno e all’esterno, impermeabile, che custodisce dentro di sé l’acqua buona del battesimo e non lascia penetrare le acque contaminate del mondo. Per questo in quegli anni agitati molte controproposte vennero alla luce e, in alcuni casi, presero la forma del «movimento». A Milano, dove spesso viene anticipato quanto viene poi esteso in tutta Italia, già negli anni Cinquanta sorge Comunione e liberazione. Il fondatore, don Luigi Giussani, detto il Gius, da assistente di Gioventù studentesca – Gs, il ramo studentesco dell’Ac – avverte prima di altri lo sfaldamento del tessuto cattolico e si domanda come fare per ridare concretezza all’esperienza cristiana. Dopo il Concilio e la contestazione del Sessantotto, che provocò grandi abbandoni anche nelle fila di Gs, è costretto a distaccarsi completamente dall’Ac e a far nascere il suo movimento. Dico «costretto» perché il Gius della prima ora, più che fare un soggetto autonomo, ha in mente di fare l’Ac meglio dell’Ac. Continua infatti a ragionare secondo lo schema tradizionale della Chiesa ambrosiana preconciliare. La presenza di Cristo risorto è nella concretezza di un corpo ecclesiale, quindi è solo «il metodo della compagnia» che permette di far toccare il Cristo e di appartenere a Lui. Se l’Ac tradisce la sua storia, se indebolisce l’identità cattolica per eccesso di modernismo, bisogna ripresentare il fascino dell’Avvenimento all’interno di una chiara Appartenenza. Così la pensa il Gius, così la pensa in fondo anche il suo superiore, l’arcivescovo di Milano, il cardinal Giovanni Colombo, che però di fronte alla radicalizzazione operata da Cl di alcuni elementi pur secondari (tipo la coeducazione tra maschi e femmine e la prevalenza data alla presenza negli ambienti piuttosto che alla vita delle parrocchie), sancisce nel novembre 1971 la definitiva separazione tra Ac e Cl. Lo sganciamento dalla pastorale ordinaria diocesana porta Cl ad accentuare ulteriormente la dimensione della «compagnia». Appartenervi assume un profilo esistenziale molto marcato, coinvolge affetti, casa, lavoro, politica. I ciellini si sposano tra ciellini, lavorano coi ciellini, e in politica votano i ciellini (di lì a poco, nel 1975, nasce ufficialmente il Movimento popolare, guidato dal barbuto Roberto Formigoni). Creano un mondo autosufficiente, in cui è facile entrare e difficile uscire, che garantisce ai suoi abitanti di essere nel vero, offrendo un apparato concettuale ben definito da cui attingere risposte ai quesiti della vita e un’organizzazione che accompagna dalla culla alla bara. È per questo impianto, voluto dal fondatore, e non tanto per lo stile bruto di molti dei suoi capi, che il movimento si è meritato il giudizio di «integralismo». Io preferisco parlare più semplicemente di «linea chiusa», e su questa linea accomuno anche altri movimenti che in quegli anni si diffondono velocemente dimostrando indubbie capacità di aggregazione: l’Opus Dei dello spagnolo Josemaría Escrivà de Balaguer, i Cursillos de Cristanidad dell’altro spagnolo Eduardo Bonnin, i Legionari di Cristo del messicano Marcial Maciel Degollado, i Focolarini di Chiara Lubich, il Rinnovamento dello spirito guidato in Italia da Salvatore Martinez, il Cammino neocatecumenale di Kiko Arguello e di Carmen Hernandez, la Comunità di Sant’Egidio di Andrea Riccardi e don Vincenzo Paglia («la Cl di Roma e di centro-sinistra»). Realtà assai diverse, certo, ma con la medesima esaltazione del carisma, del linguaggio, delle idee del leader, con la medesima insistenza sul «noi» e con la stessa tendenza a produrre una drastica contrazione della libertà di movimento dello Spirito. Chi non è con noi, è contro noi.
Wojtyla e i movimenti
La «linea chiusa» non poteva non incontrare il plauso del nuovo pontefice, Karol Wojtyla, il robusto «montanaro di Wadowice» (così lo chiama il cardinal Wyszynski, primate di Polonia, alla Radio Vaticana). Anche un papa ha le sue simpatie e antipatie. E la simpatia di Wojtyla verso i movimenti è intensa. Li sente funzionali al suo disegno. Wojtyla, fortemente polacco, vuole una Chiesa fortemente compatta al suo interno, che si presenti al mondo esterno con il volto dell’efficienza e dell’unità. Anche sui laici ha idee chiare. Li ama, basta che siano i laici giusti, in tutto dipendenti dalla gerarchia, disponibili a essere una longa manus del clero in economia e politica. Tra i movimenti preferiti Cl è al secondo posto, appena una lineetta sotto l’Opus Dei. Il feeling tra il papa e Cl scatta subito. Il Gius viene ricevuto in udienza privata il 18 gennaio 1979, e all’uscita scrive una lettera ai suoi dal titolo «Serviamo Cristo in questo grande uomo». L’anno successivo parte la campagna a sostegno a Walesa e Solidarnosc. Negli incontri del movimento si canta a squarciagola l’inno alla Madonna nera di Czestochowa. L’anno cruciale è, a tutti gli effetti, il 1982: 1’11 febbraio viene reso pubblico il decreto di riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e liberazione; il 29 agosto Giovanni Paolo II visita il Meeting di Rimini e manda alle stelle l’entusiasmo del popolo ciellino. Sempre nel 1982 l’Opus Dei ottiene lo status di prelatura personale del papa: al riparo del Vaticano, ha le mani libere dalle Chiese locali. In quel momento tutto è movimento e niente si fa senza i movimenti. Sono loro la «nuova primavera» della Chiesa. In un battibaleno raggiungono l’influenza e il potere che ricoprivano ordini religiosi secolari, i gesuiti, i francescani, i domenicani. A ciascuno tocca un compito: all’Opus vengo affidati l’alta finanza e la supervisione nella nomina dei vescovi, ai Focolarini il culto mariano e la spiritualità dell’unità, alla Comunità di Sant’Egidio pace ed ecumenismo, ai Legionari di Cristo la formazione del clero (mi domando: ma in Vaticano sapevano già della pedofilia del fondatore?). A Cl tocca di intervenire a piedi uniti nella situazione italiana e lo fa da par suo, con il solito garbo. Nell’83 mette i suoi uomini nel quotidiano Avvenire: alla direzione va il reggiano Gian Guido Folloni, alla guida della società editoriale il brianzolo Fiorenzo Tagliabue. Tramite il settimanale Il Sabato (dove scrivono penne delicate come quelle di Alessandro Sallusti e Renato Farina, alias Betulla, mentre Maurizio Lupi è l’addetto al marketing), critica sistematicamente l’Azione cattolica, per il suo protestantesimo, e la presidenza della Cei, per come sta preparando il II Convegno della Chiesa italiana a Loreto. Quando il convegno si svolge, nell’aprile 1985, la «linea aperta» dei cardinali Ballestrero – Martini – Cè – Pappalardo non trova l’assenso del papa, che insiste nel suo discorso sulla necessità di avere anche in Italia una «Chiesa forza sociale». Ed è il papa in prima persona, l’anno dopo, a cambiare il vertice della Cei, affidando la presidenza al suo vicario di Roma, il cardinal Poletti, e la segreteria all’astro nascente, monsignor Camillo Ruini. Cl gode soddisfatta.
Morte in Ac
Però l’Ac continua a resistere. L’assemblea nazionale dell’aprile 2006, nonostante le polemiche interne fomentate da Dino Boffo – il dirigente associativo che si è via via accreditato in Vaticano come l’uomo giusto per il nuovo corso wojtyliano – e uno strampalato intervento del cardinal Poletti volto a bloccare il documento finale, conferma a stragrande maggioranza la prosecuzione della «linea aperta». Il presidente uscente, Alberto Monticone, saluta con la lettura dei capitoli 16 e 17 della Gaudium et spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, in cui si parla della centralità della coscienza umana e della libertà. L’assemblea risponde con un lungo e affettuoso applauso di 7 minuti e 53 secondi. L’esito felice dell’assemblea infastidisce Ruini a tal punto che decide di procedere con il cambio dell’assistente generale. Su suggerimento dell’ineffabile Boffo, che è diventato nel frattempo il suo più intimo consigliere, il 14 marzo 1987 spedisce in punizione a Viterbo, la diocesi dei papi, monsignor Fiorino Tagliaferri e mette al suo posto monsignor Antonio Bianchin, per vent’anni assistente dell’Ac di Pisa. A lui affida il compito di riportare ordine e disciplina. «Io non sarei qui se voi non aveste disobbedito al papa», si lamenta spesso nei colloqui personali il nuovo assistente, che non nasconde neanche la sua insofferenza per gli ambienti romani. Monsignor Bianchin si logora in una spola continua tra la segretaria della Cei, dove prende gli ordini, e gli uffici dell’associazione, dove deve eseguirli. In due anni si gonfia di venti chili. Vive male, malissimo l’Assemblea nazionale Ac della primavera del 1989, che continua a «disobbedire», riconfermando la fiducia a Raffaele Cananzi, il successore di Monticone alla guida dell’associazione. L’estate seguente è un’altra estate da dimenticare, rovinata dai veti di Ruini sulla composizione della nuova presidenza. Monsignor Bianchin non regge questa situazione stressante, che la parte sana del suo inconscio deve avvertire come assurda e inaccettabile. Alla fine di settembre, mentre sta iniziando una riunione, viene colpito da un grave ictus. Morirà 15 mesi dopo, il 22 gennaio 1991. Nessuno si ricorderà più di lui.
Ruine ruiniane
Crollato Bianchin, tocca a Ruini assumere per qualche mese l’interim di assistente generale dell’Azione cattolica. Prima di nominare quale nuovo, affidabile assistente monsignor Salvatore De Giorgi (in seguito cardinale di Palermo), dà le consegne al Consiglio nazionale: obbedite ai preti (cioè a me), non fate politica (ovvero lasciatela a me), non litigate coi movimenti (quindi fidatevi di me che so come trattarli). L’associazione, spossata da troppi annidi pressione, neanche ce la fa a discutere e formalmente s’adegua. L’anno successivo, il 1991, Ruini diventa presidente della Cei e cardinale vicario di Roma e da quel momento prende definitivamente in mano le redini della Chiesa italiana, imponendo la sua leadership centralizzata che parla per tutti e isola i non allineati. Per più di quindici anni la Chiesa è «lui», sempre e soltanto «lui». Il controllo sull’Ac diviene totale. Dalla sua scrivania passano per il visto i programmi dei convegni, dei seminari, perfino gli articoli da pubblicare sulla stampa associativa. Non c’è intervento che possa esser fatto senza la sua autorizzazione preventiva. A un certo punto comanda all’Ac la riconciliazione ufficiale con Cl. La presidente Paola Bignardi è «costretta» a salire sul palco del Meeting di Rimini per la stretta di mano ufficiale con uno dei capi storici del movimento, Giancarlo Cesana. Comanda pure di chiamare l’ex fascista Gianfranco Fini a parlare sulla «funzione sociale degli oratori»! Se l’Ac è mortificata, anche Cl e gli altri movimenti non vengono più di tanto valorizzati. E dire che loro stanno dalla parte giusta, quella dell’identità, della presenza, dell’obbedienza. Il cardinale preferisce inventarsi delle sigle che dipendano direttamente da lui e che a un suo cenno intervengano nel dibattito pubblico nazionale: Forum delle famiglie, Retinopera, Comitato Scienza &Vita (quest’ultimo fondamentale per la campagna astensionista sul referendum sulla procreazione assistita del 2005). Alla guida di Avvenire e della televisione Sat 2000 blinda il fidatissimo Boffo. Si organizza da sé la creatura prediletta, il «Progetto culturale», che lancia nel convegno ecclesiale di Palermo per il risveglio del cattolicesimo italiano. Quando ha bisogno di sponsor non cerca la Compagnia delle Opere, ma si affida per anni alle capaci mani di Gianpiero Fiorani, l’amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi, un vero cattolico modello, un granitico lottatore nel campo dei valori. In politica preferisce interloquire con Silvio, il libertino, piuttosto che con Romano, il cattolico adulto. E quando pensa al futuro non pensa a Roberto Formigoni, il governatore della Lombardia, ma ad Antonio Fazio, il governatore della Banca d’Italia. Quando nel 2005 Fazio è coinvolto nelle inchieste bancarie sui «furbetti del quartierino», Ruini non fa un plissè, e subito riparte con le telefonate, candidando alle politiche del 2006 alcuni suoi fiduciari nei partiti centristi dei due schieramenti (Luigi Bobba, già presidente delle Acli, e Paola Binetti, opusdeista presidente di Scienza&Vita, nella Margherita, Luisa Santolini del Forum delle associazioni familiari e Luca Marconi di Rinnovamento dello spirito nell’Udc). Quello che ha sempre colpito di Ruini, più che la contiguità con i poteri di tutti i tipi, è stata la disinvoltura nel far finta di niente. Ogni volta che un bubbone esplodeva e gli «amici» finivano nei guai, «lui» voltava pagina con freddezza, come era già successo con il crollo della Dc, senza mai fare i conti con la debolezza culturale prima ancora che spirituale ed etica che lo aveva portato a dare credito a personaggi senza scrupoli e ad affidare i progetti più ambiziosi a gente modesta. Al fine di combattere il relativismo con alleanze di ogni tipo, «lui», la Chiesa, l’ha ampiamente relativizzata. Le ha fatto perdere autorevolezza. Ha contributo a svuotarla. Quando nel 2007 lascia la Cei per sopraggiunti limiti di età, l’Ac è esausta, Cl si ritrova priva di spinta spirituale, compromessa com’è negli affari della Compagnia delle Opere e nella politica berlusconiana, e gli altri movimenti vivacchiano: si fanno notare nei giorni di gala, ma scompaiano alla vista nei giorni ordinari. A livello centrale si è fatta tabula rasa dei cattolici conciliari, circolano solo alcuni neoclericali che fanno da cassa di risonanza delle decisioni prese nelle alte sfere. Alla base, nelle parrocchie, rimangono preti in crisi di identità e tanti vecchi meditabondi sulla morte vicina. Le donne quarantenni sono scomparse, i giovani cercano fremiti altrove. E chissà quali altri dati ha in mano il papa. Dati che lo devono molto, molto preoccupare. Solo così si spiega la sua mossa senza precedenti di spostare il patriarca di Venezia a Milano.
Scola a Milano
Per un vescovo cambiare diocesi è come cambiare sposa. Può chiederlo solo il papa in persona. E se il papa lo chiede, deve esserci qualcosa di grave e di urgente. Il 28 giugno del 2011 il patriarca Angelo Scola viene nominato 152° arcivescovo di Milano. Deve lasciare Venezia, le gondole, il titolo di patriarca: prima di lui nel Novecento era toccato ad altri tre ma solo per diventare papa (Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I). Lui, invece, dopo 9 anni di Serenissima viene spedito a Milano, la grande Ninive. Nella sua prima lettera alla diocesi par di leggere più l’ansia per il nuovo incarico che l’entusiasmo di tornare a casa (è nato nel 1941 a Malgrate, piccolo paese alle porte di Lecco, sul ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno). Il papa, che lo conosce da 40 anni (primo incontro a Regensburg nel 1971), punta molto su lui. Forse lo vuole anche suo successore sul soglio di Pietro, ma intanto gli chiede grandi cose dalla cattedra di Ambrogio e di Carlo. Si aspetta che la diocesi di Milano riprenda la sua funzione illuminante per l’intera cristianità. Se il cattolicesimo non riparte nella diocesi più importante d’ Italia, dove mai potrà ripartire? Ma Scola è preoccupato, forse anche un po’ depresso. Ciellino della prima ora, e proprio per questo allontanato dal seminario diocesano e ordinato sacerdote nella diocesi di Teramo, sa che l’attendono duemila preti non ciellini e anche una Cl assai diversa da quella dei suoi tempi. Quando fa l’ingresso solenne in duomo il 25 settembre 2011, neanche lui può immaginare il bailamme dei mesi successivi: la tempesta giudiziaria in Regione Lombardia e l’uscita dalle segrete stanze vaticane della lettera scritta di don Julan Carrón, il successore del Gius, al nunzio apostolico monsignor Giuseppe Bertello. Da tempo nubi oscure avvolgevano la sommità del Pirellone, ma è dall’ottobre scorso che son partiti fulmini e saette direttamente verso Formigoni. (Per una più dettagliata descrizione di quanto sta succedendo si veda l’articolo di Valerio Gigante, «”Comunione e liberazione” ovvero la Chiesa di Mammona?» su MicroMega, n. 4/0012, pp. 185-197). Una serie di inchieste stanno verificando l’esistenza di malaffare nel settore della sanità, alcuni indagati sono finiti in carcere, e due di questi sono intimi del governatore. Uno è Antonio Simone. Leader degli universitari ciellini nella Cattolica degli anni Settanta, enfant prodige del Movimento popolare eletto nel consiglio regionale lombardo a 26 anni nel 1980, assessore alla Sanità fino allo scoppio di Tangentopoli, arrestato e poi assolto, ha dismesso i panni del politico per occuparsi di affari ad ampio raggio. Il giorno dopo il suo arresto, la moglie Carla Vites scrive una lettera rovente sul Corriere della Sera accusando «Robertino» di aver tradito il suo migliore amico e di aver perso la testa per il lusso, di divertirsi (e tanto!) in un turbinio di vacanze e di serate a 5 stelle. Chi fa divertire Robertino è l’altro, ovvero Pierangelo Daccò. Lodigiano, faccendiere, socio di affari di Simone, ha una grande influenza presso l’assessorato alla Sanità della regione Lombardia – guidato anch’esso da ciellini. Daccò risulta l’organizzatore a proprie spese delle lussuose vacanze del governatore. Il 14 giugno scorso la procura di Milano ha iscritto anche «Robertino» nel registro degli indagati: gli viene contestato il reato di corruzione, con l’aggravante di reati transnazionali. Chissà come andrà a finire l’inchiesta giudiziaria. Intanto la buriana ha messo in crisi non solo gli equilibri politici della regione, ma anche la credibilità di Cl. Su Repubblica (1/5/2012), don Carrón ammette la necessità di fare autocritica (però alla sua lettera, almeno ufficialmente, non segue nessun altro intervento). Ma è soprattutto Scola, educatore di Formigoni al tempo del liceo, che si sente in dovere di precisare i suoi rapporti col movimento. Lo fa in tre occasioni. La prima, durante un’intervista del 23 dicembre 2011 al Corriere della Sera: «Credo che Cl sia un fenomeno educativo ecclesiale formidabile» e non deve essere mischiata con la politica: «Gli uomini che si sono giocati in politica portano lì la loro faccia e su questa base sono stati e saranno valutati dai cittadini». La seconda, durante il tradizionale incontro con la stampa il 24 gennaio 2012, festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti: «Sono vent’anni anni che non partecipo più alle riunioni di Comunione e liberazione, e in Cl non conosco nessuno che abbia meno di 60 anni… Scola e Formigoni da vent’anni si sono visti sì e no una volta l’anno a Natale. Possibile che uno si debba portare addosso non uno ma due peccati originali?». La terza, a fine aprile, a margine di un incontro della Fondazione Cariplo: «Cosa ne so io di Comunione e liberazione? Non parlo di queste cose, né di Formigoni, né di altro. Io sono vescovo da 21 anni e mi occupo delle Chiese sante di Dio che mi
sono state affidate». Mentre Scola dichiara, arriva la bomba, ovvero la pubblicazione nel volume di Nuzzi, Sua santità, le carte segrete di Benedetto XVI, della lettera inviata da don Juliàn Carrón, all’allora nunzio apostolico monsignor Bertello, nel corso delle consuete consultazioni per la successione di Tettamanzi. La lettera esprime un durissimo giudizio sugli ultimi due episcopati di Martini e di Tettamanzi, «responsabili della rottura della tradizione ambrosiana caratterizzata da una profonda unità tra fede e vita e dall’annunzio di Cristo “tutto per noi” (sant’Ambrogio) e come presenza e risposta ragionevole al dramma dell’esistenza umana». Critica «l’unilateralità di interventi sulla giustizia sociale, a scapito di altri temi fondamentali della dottrina sociale, e un certo sottile ma sistematico “neocollateralismo”, soprattutto della curia, verso una sola parte politica (il centrosinistra) trascurando, se non avversando, i tentativi di cattolici impegnati in politica, anche con altissime responsabilità nel governo locale, in altri schieramenti». Considera grave la fragilità dell’apporto cristiano alla cultura, costretto in un’«autoriduzione dell’originalità del cristianesimo» su posizioni relativistiche o problematiche. Tutti gli elementi convergono nell’indicazione finale: «Per queste ragioni l’unica candidatura che mi sento in coscienza di presentare all’attenzione del Santo Padre è quella dell’attuale patriarca di Venezia, cardinal Angelo Scola». La lettera, che si potrebbe anche intitolare tout court «Cl vuole Milano», c’est plus facile, suscita diffuse reazioni in preti e laici tanto che Scola, 1’8 giugno, durante la seduta del consiglio presbiterale diocesano, è costretto ad affrontare di petto la questione: «Quello che ha scritto don Carrón è il suo pensiero. Quel che io penso dell’eredità dei miei predecessori risulta con chiarezza anche soltanto rifacendomi a quanto detto davanti al papa (… lungo e ricco ministero… sagace azione ecclesiale…)». E conclude incaricando il suo vicario generale di incontrare a nome suo i due responsabili diocesani della Fraternità di Cl e lo stesso don Carrón, «per chiedere i chiarimenti dovuti e perseguire il processo di pluriformità nell’unità proprio della vita ecclesiale».
L’Azione di Comunione
Questa posizione netta è stata colta da molti come il definitivo sganciamento del cardinale da Cl e la riaffermazione di una continuità nella guida della diocesi. A ulteriore conferma di questa lettura ci sarebbe la prima tornata di nomine: compaiono diverse figure che sono state in passato stretti collaboratori di Martini e Tettamanzi. In cuor mio ho invece la sensazione che le cose stiano andando diversamente. Credo che lo sganciamento dall’organizzazione di Cl e le nomine continuiste rendano più libero Scola di effettuare la virata per cui è stato mandato a Milano. Benedetto XVI non ha aspettato la lettera di Carrón per farsi un giudizio sulla condizione del cristianesimo ambrosiano e per prendere la sua decisione sul nuovo arcivescovo. È il papa in prima persona che vuole una ripartenza in un senso ciellino, cioè con una chiara ripresentazione dell’Avvenimento e con un’altrettanto chiara insistenza sull’Appartenenza (le maiuscole sono d’obbligo). A tal fine non è indispensabile che il movimento sia in primo piano, anzi in una fase come questa è meglio se sta defilato, a purgare l’eccessiva mondanizzazione. Indispensabile è piuttosto l’utilizzo del metodo tanto caro al Gius e che il Gius stesso dichiarava di aver imparato dalla scuola teologica ambrosiana (la cosiddetta «scuola di Venegono»). Sul persistere del legame di Scola con l’impostazione imparata dal Gius non credo possano sorgere dubbi. Al Gius Scola attribuisce l’inizio della sua personale maturità (così scrive in un volumetto dedicato al maestro Un pensiero sorgivo, Marietti 1820, Genova-Milano 2004). A lui, formidabile educatore, continua a guardare come riferimento sicuro (così si è espresso nel giorno dell’ingresso in diocesi). Scola dovrà certo impegnarsi in un’opera di convinzione del clero. Che però, punto primo, è un clero che ha un forte senso dell’istituzione e non osa mettersi contro i desiderata del vescovo e del papa (Ubi Petrus, ibi Ecclesia Mediolanensis). E che poi, punto secondo, nella sua maggioranza non dovrebbe far fatica a ritrovarsi su una forte linea ecclesiocentrica purché non veicolata da Cl, quindi scevra dalle sfibranti polemiche dei decenni scorsi sul rapporto tra parrocchie, associazioni e movimenti. Aumenta infatti il numero di ecclesiastici che pensano necessario dare a un mondo segnato dalla paura quel senso di sicurezza che solo una religione compatta e organizzata sa trasmettere. Potrà giovare al cardinale il riutilizzo dell’Azione cattolica come organizzazione laicale di riferimento: lui stesso ci deve aver già pensato, un cenno l’ha fatto al consiglio pastorale diocesano del febbraio scorso».Voglio un’Azione cattolica che passi da 8 mila aderenti a 80 mila. Non è una battuta, è una prospettiva su cui chiedo di lavorare». Scola sa quanto l’Ac di oggi sia plasmabile a suo piacimento. E forse in cuor suo sogna di andare oltre, di sanare, quarant’anni dopo, la ferita della scissione fra i due rami dell’associazionismo ambrosiano riunificandoli in un unico soggetto. La sigla potrebbe rimanere la stessa, solo il nome cambierebbe: Azione di Comunione. Metà per uno, non fa male a nessuno.
Al vento
Se la diocesi di Ambrogio e Carlo, che sempre anticipa, prevede il rinforzo delle mura del tempio e il ricompattamento di associazioni e movimenti — si tornerà anche a cantare l’inno ufficiale? Siamo arditi della fede/ siamo araldi della croce/ siam un esercito all’altar — dovrei definitivamente rassegnarmi. Invece il ricordo di quegli anni giovanili continua a non darmi pace. Sembrava possibile un cambiamento radicale della mentalità e delle strutture della Chiesa: porte aperte, avventura evangelica, «Dio sotto la tenda». Adesso invece molte porte sono state cautamente accostate, altre violentemente chiuse. E a me manca il fiato. Vivo ripetute crisi di claustrofobia. Non credo di essere il solo. Credo che siano in tanti quelli che si ritrovano spaesati, perfino traditi, e che quando sentono parlare di Chiesa cattolica avvertono un nodo alla gola. Chi soffre di claustrofobia è costretto a uscire. A partire in viaggio. Un viaggio tutto interiore, alla ricerca di quella brezza sottile che abita nell’intimo dei volti umani e nella forma delle cose. Se Dio c’è, assomiglia molto all’aria che respiriamo: indispensabile, concreta, anche se inafferrabile e praticamente indescrivibile. Di più, al venticello di primavera che risveglia i sensi, trasmette fecondità, trasporta il polline da un fiore all’altro. Credo che nel prossimo periodo aumenterà il numero di cristiani che camminerà in forme extra-vaganti lungo percorsi di vento. Ah, il vento! È iconoclasta, è purificazione da tutte le immagini di Dio con le quali cerchiamo spesso di appropriarci del suo mistero, è liberazione anche da tutte quelle immagini di noi che finiscono per essere stancanti o ripetitive, anche se per un breve tempo possono essere stati gratificanti. Il vento spinge fuori dalle gabbie, sempre più in là. Spinge fino alla compassione, cioè a quella forma particolare di amore che nasce dall’impotenza. Un amore diverso da quello del benefattore che fa piovere benedizioni dall’alto o da quello spettacolare che inventa miracoli. È il cum-pati, la comunione tra coloro che soffrono la stessa fame e la stessa sete. È la mano sulla spalla da parte di chi è come te e con te. Il vento, in ultima istanza, è il ritorno all’origine, al testamento di Giovanni, questa volta l’evangelista. Ormai molto vecchio e venerato, i suoi discepoli gli chiedevano di riassumere in una parola il messaggio del Signore. E lui rispondeva: «Figlioli miei, amatevi, amatevi, amatevi». Se questo è il quid del cristianesimo, oggi siamo in basso, molto in basso. Ma è pur vero che il mondo è solo all’inizio e quindi vasto il programma di rendere vivo ciò che non lo è ancora. In questi tempi cupi è una bellissima notizia da mozzare il fiato.